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Altro mare, stessa morte. La tragica vicenda dei Rohingya

Un gruppo di rifugiati Rohingya

L’alto Commissariato per i rifugiati ha lanciato un appello per denunciare l’aumento delle morti di persone – in fuga dal proprio paese – nell’Oceano Indiano. Nel 2012 vi sarebbero morte almeno 500 persone; cifre che rendeno un altro mare, lontano ma speculare al nostro Mediterraneo, tomba silenziosa di chi fugge per salvarsi la vita.

Per coloro che fuggono dalle guerre e dalla miseria, l’Oceano Indiano e’ diventato uno dei tratti di mare piu’ letali al mondo. Insieme al Mediterraneo e alla frontiera statunitense-messicana. Lo scorso febbraio Guterres, portavoce dell’UNHCR, ha dichiarato: “This is an alarmingly high number of lives lost, and begs a far more concerted effort by countries of the region both with regard to addressing the causes and to preventing lives being lost. Push-backs, denial of disembarkation, and boats adrift for weeks will not solve a regional problem that clearly needs better, more joined-up, and more compassionate approaches by everyone”. Il punto cruciale è quindi quello della sensibilizzazione al problema, sia per i governi dei paesi di partenza sia per quelli di destinazione, che spesso si rifiutano di favorire gli sbarchi e di recuperare le barche in avaria. Problemi che riguardano un’intera regione, quella del golfo del Bengala che abbraccia India, Sri Lanka, Balngladesh, Myanmar e Thailandia.

La maggiorparte delle persone, vittime del mare, tenta la fuga dal Myanmar e, secondo quanto riferisce il sito dell’Agenzia ONU per i rifugiati, sarebbero già diverse migliaia le persone che nel 2013 si sono imbarcate affidandosi ai trafficanti nel Golfo del Bengala. Si tratta per lo più di persone di etnia Rohingya, provenienti dallo stato birmano di Rakhine o dai campi per rifugiati o dagli accampamenti del Bangladesh. I musulmani Rohingya sono visti dal governo birmano come emigranti illegali dal Bangladesh e non sono stati riconosciuti ufficialmente come una delle minoranze etniche della regione. La posizione del governo ha reso i Rohingya degli apolidi e dal giugno 2012 la situazione è esplosa tanto che si parla di genocidio muto.

80.000 sfollati, 5.000 abitazioni rase al suolo, 650 morti, 1.200 feriti: sono i numeri ufficiali, aggiornati a dicembre 2012, delle ondate di violenza che hanno colpito l’etnia dei Rohingya. Spinti alla fuga, ciò che si trovano di fronte è la via dell’oceano, dei trafficanti, delle carrette del mare alla deriva, delle marine militari che le respingono o che rifiutano di concedere gli sbarchi. L’ultima vicenda in ordine cronologico è del 15 marzo corrente mese, in cui il governo thailandese avrebbe trainato un’imbarcazione, con a bordo persone di etnia Rohingya, fuori dalle acque di conpetenza del Paese e durante le operazioni di intercettazione sarebbero stati esplosi anche colpi di arma da fuoco. Storie che si ripetono tristemente dal Mediterraneo fino all’oceano Indiano senza alcuna variazione. Qui un lembo di mare, là la grande distesa di un oceano per una medesima sorte: l’indifferenza umana, la non osservanza delle leggi internazionali, il fuggire da una morte per incontrarne un’altra.

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