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Somali refugee Ahmed stands with his mother and sisters in the grounds of the Emergency Transit Centre in Timisoara, Romania. © UNHCR/G.Leu
Somali refugee Ahmed stands with his mother and sisters in the grounds of the Emergency Transit Centre in Timisoara, Romania. © UNHCR/G.Leu

Silvia Ponzio, antropologa culturale torinese, ci racconta in un’intervista la sua esperienza in Romania in un campo di ricollocamento gestito da UNHCR e IOM in collaborazione con lo stato rumeno.

La Romania non è fra i paesi noti per una politica di accoglienza e di apertura agli immigrati. Quali sono i progetti attivi che hai potuto conoscere direttamente o indirettamente?

La Romania da un anno a questa parte sta affrontando un lungo e difficile dibattito riguardo l’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo. Un anno fa l’Unione Europea, per alleviare la pressione su Paesi quali Italia, Grecia e Ungheria, aveva proposto una nuova quota e il trasferimento di immigrati in Romania. La discussione si è mossa tra coloro che sostengono che la Romania sia solamente un Paese di passaggio e rifiutano ogni tipo di apertura e coloro che parlano della responsabilità dello Stato in quanto membro dell’Unione Europea. La società è spaccata in due e il dibattito è ancora in corso e da seguire attentamente.

Ho potuto conoscere direttamente l’Emergency Transit Centre di Timişoara, il primo campo europeo di ricollocamento aperto nel 2008 grazie ad un accordo tra l’UNHCR, l’IOM e lo Stato della Romania. Questo campo offre un rifugio temporaneo e sicuro per i rifugiati evacuati dai loro Paesi e in attesa di essere ricollocati in un Paese terzo. Questo accade quando le condizioni di vita nei loro Paesi di origine sono insostenibili a livello di sicurezza personale. Qui possono essere ospitate fino a 200 persone dove vengono preparate per il resettlement in diversi Paesi come l’Inghilterra, la Svezia, la Norvegia o gli Stati Uniti. L’UNHCR si incarica di intervistarle, di prendere le loro impronte, concludere accordi coi Paesi terzi fornendo canali sicuri per il trasferimento e preparare tutti i documenti necessari. Vengono effettuati esami medici e cure specifiche in caso di bisogno. Solitamente il tempo di attesa è di circa quattro mesi, ma a seconda dei casi può restringersi o allungarsi. Nell’attesa che tutto sia pronto per la partenza, ai rifugiati vengono offerti corsi di orientamento culturale, corsi di alfabetizzazione e di lingua inglese e laboratori specifici come cucina o meccanica.

Ci puoi raccontare la tua esperienza in Romania e nello specifico il ruolo che hai ricoperto?

Io mi sono inserita come volontaria tramite un progetto del Servizio Civile Internazionale e mi sono occupata dei corsi di alfabetizzazione e insegnamento della lingua inglese. In un primo momento ho affiancato una maestra nell’insegnamento dell’inglese a bambini afgani dai 6 agli 11 anni in una scuola al di fuori del campo. Inizialmente i bambini parlavano solo il persiano e alcuni di loro non erano mai andati a scuola. L’insegnamento è partito dall’alfabeto latino attraverso schede, disegni, video e musica. Ogni giorno si notavano piccoli passi avanti nella comprensione orale. In pochi mesi alcuni bambini riuscivano a intrattenere piccole conversazioni e a fare da interpreti ai loro genitori. In un secondo momento sono entrata come insegnante volontaria all’interno del campo. La mia equipe di lavoro era composta da altri due volontari e da un’insegnante madrelingua inglese che da anni svolge con dedizione il suo lavoro coi rifugiati. Noi volontari ci siamo dedicati alla English Zone, un laboratorio informale di lingua inglese rivolto agli adulti per potenziare gli argomenti trattati durante le lezioni di insegnamento formale. Attraverso giochi, conversazioni, letture ad alta voce o esercizi di potenziamento potevamo aiutare soprattutto gli adulti analfabeti che necessitavano più attenzione. Oltre a questa attività seguivo delle classi di inglese di diverso livello di studenti adolescenti. È stato molto stimolante vedere il loro interesse crescere ad ogni lezione e il loro coinvolgimento soprattutto quando concentravo le lezioni su temi di conversazione per loro interessanti e che ci hanno aiutati a conoscerci meglio e a creare un bel rapporto.

Quali sono le tue considerazioni a fronte del tempo trascorso nel campo? E quali sono le realtà che hai potuto conoscere meglio?

Il mio ruolo di volontaria mi ha permesso di avvicinarmi molto alle persone, parlando, scherzando, giocando, passando il tempo insieme e ascoltando le loro storie, i loro traumi e i loro desideri per il futuro. Le mie lezioni sono state un’occasione di incontro, scambio culturale, sostegno e empowerment delle donne. Ci sono stati momenti molto importanti e significativi ma anche difficoltà.

I rifugiati che ho incontrato durante quest’anno erano originari del Congo, dell’Iraq e la maggior parte dell’Afghanistan. Ho conosciuto più da vicino la questione del gruppo etnico Hazara, originiario dell’Afghanistan, di lingua persiana e religione musulmana sciita. Pur essendo un quinto della popolazione dell’Afghanistan, gli Hazara sono sempre stati considerati come stranieri e discriminati per la loro fede (il Paese è prevalentemente sunnita) e i loro tratti somatici. Sono stati considerati come inferiori e sterminati dal regime talebano. Durante la guerra russo-afgana molti Hazara si sono rifugiati nei paesi vicini come l’Iran, dal quale provengono le persone che ho conosciuto io. Molti di loro non sono mai stati in Afghanistan, il Paese che amano e considerano la loro patria. In Iran hanno subìto tali discriminazioni e maltrattamenti che la vita è diventata insostenibile. Inoltre quando negli ultimi anni l’Iran ha iniziato coercitivamente a inviare gli afgani a combattere in Siria oppure a rimpatriarli in Afghanistan, molte famiglie si sono trovate intrappolate nell’impossibilità di continuare una vita di soprusi in Iran e l’impossibilità di tornare nella loro patria. La situazione è stata più volte denunciata da Amnesty International o Human Rights Watch.

Alcune fra queste persone sono riuscite ad entrare nel programma di ricollocamento dell’UNHCR e ad arrivare nel campo temporaneo in Romania. Alcuni dei miei studenti mi hanno raccontato che le loro famiglie avevano fatto la richiesta all’UNHCR anche dieci anni fa e ora erano molto impazienti di partire per gli Stati Uniti. L’America è la loro Terra Promessa, il luogo del riscatto dove sono pronti a lavorare sodo e dove risiedono tutti i loro desideri più profondi. Mina sogna una vita migliore almeno per i figli, Fereshte desidera un posto dove vivere senza paura, Nader vuole dare un’istruzione ai figli, Nazgol vorrebbe aprire un salone di bellezza, il piccolo Ali Mohammed vorrebbe comprarsi una bicicletta e una moto quando sarà grande, Hossein vuole studiare infermieristica e lavorare nel campo della sartoria dove eccelle, Morteza un posto dove essere se stesso, Ali un luogo dove la madre possa finalmente vivere una vita serena. Tante volte la realtà americana che si presenta ai loro occhi è ben diversa dalle aspettative, ma in fondo i sogni sono la forza delle persone ed è giusto che ognuno si tenga ben stretto il proprio.

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