Cosa resta della Siria? Delle chiacchiere quotidiane davanti alle botteghe, dei bambini che corrono nelle strade, del lavoro e del tempo libero? Il film Coma di Sara Fattahi prova a dare una risposta. Molto dura perché ciò che resta è il dolore delle donne.
Chiuse in una casa a Damasco, Sara, sua madre e sua nonna subiscono una guerra che dura da 31 mesi. Madre e nonna, trascorrono la vita tra il caffè e la preghiera mattutina e la visione di soap, film e notizie televisive che non le risparmia dalle atrocità di quanto appare “fuori”. Sara, vive in Libano, ma non abbandona la sua famiglia e compie ripetuti viaggi per stare vicino alla madre a alla nonna. E con loro si confronta, si unisce, in un comune fronte femminile di resistenza.
Il film “Coma” è frutto del lavoro della giovane cineasta siriana Sara Fattahi. Inserito nel concorso ufficiale di Torino 33, il suo dramma è un pugno allo stomaco, claustrofobico e intenso.
Il progetto del film risale a un periodo precedente allo scoppio e al dilagare del conflitto ma con il tempo non si è potuto non adattare alla nuova situazione. L’idea iniziale era quella di un ritratto della nonna a cui si è aggiunta la madre e a loro, in un senso di rappresentazione universale, tutte le donne rimaste in Siria. Spiega la regista: “la maggior parte degli uomini se ne sono andati per non combattere una guerra che peraltro non condividevano. La lacerante quotidianità del mio paese è fatta di una moltitudine di donne sole e di maschi esuli che si rifiutano di essere soldati in un conflitto non loro, che trovano insensato.”
Ciò che colpisce del film Coma è la descrizione della guerra, raccontata senza armi e nemici. La possiamo vedere nella sua azione più subdola, quella di attaccarsi addosso alle persone, come un abito che si è costretti a indossare.
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