Abbiamo presentato di recente un rapporto del Consiglio d’Europa sul tema “lavoro e diritto d’asilo”, un documento che non cita l’Italia. Ma che cosa succede nel Belpaese? I problemi, e l’impegno di organismi e associazioni, fra cui la Fondazione Migrantes.
«La permanenza nei centri di accoglienza continua ad allungarsi. Nonostante la partecipazione a ai corsi di formazione e l’orientamento offerto dagli operatori, nel 2013 solo pochi ospiti dei centri hanno lavorato con continuità. Anche nel Nord Italia, nelle nostre sedi di Trento e Vicenza, la ricerca di occupazione si è fatta difficoltosa. Spesso gli impieghi trovati sono solitamente molto precari o in nero. Va registrato che ha ulteriormente complicato tale situazione l’entrata in vigore della Legge Fornero, che di fatto ha reso più difficile il percorso di chi, come i rifugiati, accede quasi soltanto alle fasce più basse e precarie del mercato del lavoro». L’ultimo aggiornamento sull'”effetto crisi” sui rifugiati è di Berardino Guarino, direttore dei progetti del Centro Astalli. L’occasione, nei giorni scorsi, la presentazione del Rapporto annuale 2014 del Centro.
Nel 2013 a Roma hanno beneficiato del servizio Accompagnamento all’autonomia del Centro Astalli di via del Collegio Romano quasi 500 persone. «Rispetto al 2013 – testimoniano i volontari del servizio – il numero medio di interventi per ciascun utente è cresciuto a causa della maggiore difficoltà nel trovare un impiego, e quindi della necessità di continuare le ricerche, l’orientamento e l’assistenza».
E tuttavia, che diritto d’asilo e diritto a un posto di lavoro (dignitoso) non siano conquiste esattamente parallele non è certo una novità.
Si “esce”. Ma poi?
Nel 2012, anno degli ultimi dati disponibili, sono usciti dai progetti della rete Sprar quasi 2.900 beneficiari: di questi, meno del 40% per essere riusciti a «portare avanti» il loro progetto di integrazione (magari anche solo con un tirocinio o una borsa lavoro di tre mesi). Ancora: gli interventi del Fondo di accompagnamento all’integrazione (Fai, promosso dall’Anci con fondi dell'”8 per mille” e rivolto agli enti locali della rete Sprar) riguardano per il 53% il settore lavoro, soprattutto tramite borse e tirocini formativi e corsi di formazione professionale. Ma nel 2012 questi interventi hanno coinvolto in tutto appena 1.800 beneficiari.
Più indietro di un anno, ma più nel dettaglio, una ricerca del Servizio centrale Sprar ha verificato che nel 2011, all’uscita dai progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, solo il 37% dei beneficiari ha trovato casa e il 27% un lavoro.
Al di fuori dello Sprar lavorano progetti più o meno locali. Come il progetto torinese e biellese Non solo asilo 2 (Cooperativa Orso, Ufficio Pastorale Migranti di Torino e Filo da Tessere con il contributo della Compagnia di San Paolo e la collaborazione dell’Ufficio Pio) o il progetto Re-Lab: start up your business (International Training Centre dell’Ilo con il Cir, Micro Progress Onlus, Associazione Microfinanza e Sviluppo e Comune di Venezia).
Focus/ “Anche in nero, purché sia…”
La ricerca Le strade dell’integrazione (2012), realizzata dal Cir in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma, è una delle più recenti ad aver esplorato con una certa ampiezza, e in profondità, la situazione lavorativa dei rifugiati. Il campione è composto di 222 titolari di protezione internazionale residenti in Italia da almeno tre anni. Nel campione ha un lavoro solo un intervistato su due. Fra questi ultimi, anche 18 laureati: tra loro «c’è anche chi fa il bracciante agricolo, chi il custode, chi distribuisce giornali o lavora in un magazzino o ancora lavora come un muratore; altri svolgono delle attività socialmente più riconosciute, come chi è responsabile degli sportelli per l’immigrazione o svolge l’attività di interpretariato»; solo un beneficiario laureato, in linea con i propri studi, ha il “privilegio” di fare il pediatra. Al di là del titolo di studio il 17% dei lavoratori, cioè la categoria più numerosa, sono operai non specializzati. «Percentuali minori, ma che sommate insieme rappresentano il 40% degli intervistati lavoratori, sono impiegate nel settore delle pulizie, o come assistenti domestici (o badanti) o braccianti agricoli, o commessi, o cuochi». Fra i lavoratori intervistati, poco più di 3 su 10 avevano un contratto a tempo indeterminato. Oltre 4 su 10 avevano un contratto precario. E oltre 2 su 10 lavoravano in nero: «Una percentuale significativa di persone costrette a lavorare nel sommerso – quest’ultima – e che, a fronte dell’attuale crisi economica, non lamenta la propria condizione: una condizione che nella ricerca non viene mai segnalata tra le motivazioni per le quali si sarebbe disposti a cambiare il proprio lavoro…». Allegato: Le strade dell’integrazione (file .pdf) |
Lo sfruttamento? “È grave!”
Solo negli ultimi anni, intanto, è emersa l’urgenza di combattere lo sfruttamento lavorativo, dove non si è di fronte alla vera e propria tratta di persone, ma comunque a evidenti violazioni dei diritti umani nel cuore dell’Occidente “ricco” e “civile”.
Lo scorso marzo Medici per i diritti umani (Medu) ha fatto il punto sulla situazione nella piana di Gioia Tauro, in Calabria. «Continuano a essere disastrose le condizioni abitative, igienico-sanitarie e lavorative di alcune migliaia di migranti che ogni anno giungono nella Piana per la stagione della raccolta degli agrumi».
In un mese sono stati assistiti dalla “clinica mobile” di Medu oltre 150 braccianti, perlopiù dell’Africa sub-sahariana, nelle baraccopoli e nei casolari abbandonati dei comuni di Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi e Taurianova. «Due migranti visitati su tre possiedono un regolare permesso di soggiorno e quasi un migrante su due, il 45%, è titolare di protezione internazionale o umanitaria – denuncia Medu -. L’89% lavora in nero e il 64% prende in media 25 euro per un giorno di lavoro, o anche meno. Ma nessun piano di accoglienza è previsto per la prossima stagione».
È un amaro bilancio, ormai a quasi due anni dal varo del Dlgs 109/2012 di recepimento della Direttiva 2009/52 Ue sulle “norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. «Certo, ci muoviamo in un quadro legislativo ancora insufficiente – commenta con Vie di fuga Lorenzo Trucco presidente dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) -, ma il fatto è che esso non trova ancora applicazione: se fosse adoperato potrebbe già dare dei risultati».
Poi, ricordando che lo sfruttamento lavorativo di migranti e rifugiati non è un fenomeno diffuso solo nel Meridione, Trucco cita il recentissimo Protocollo d’intesa interistituzionale “contro la tratta degli esseri umani ai fini dello sfruttamento e intermediazione illecita della manodopera nei luoghi di lavoro in provincia di Torino”.
Firmato lo scorso febbraio da enti locali, istituzioni pubbliche, organi giudiziari, Forze dell’ordine, sindacati, associazioni e organismi (fra cui la stessa Asgi, il Gruppo Abele e l’Ufficio pastorale migranti di Torino), «unisce realtà diverse che hanno preso coscienza del problema, disposte a collaborare ognuna con le proprie competenze: siamo appena partiti, ma è un segno, crediamo, non da poco». Il protocollo ha istituito presso la Prefettura torinese un Comitato di studio e coordinamento per «l’analisi, la prevenzione e il contrasto dello sfruttamento della manodopera straniera».
Al Protocollo si è giunti dopo circa due anni di lavoro e studio sui temi dello sfruttamento lavorativo nell’ambito del progetto “La legalità paga”, promosso dal Gruppo Abele in collaborazione con Asgi e Inps e sostenuto dalla Fondazione Migrantes.
Collegamenti
Iniziative 2/ “Terragiusta”: la campagna di Medu, Asgi e Legal Clinic
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