A 10 anni dalle prime sperimentazioni, l’approfondimento del Report 2018 della Fondazione Migrantes fa il punto sui progetti di accoglienza in famiglia. Negli ultimi tre anni, in sette iniziative oltre 400 nuclei familiari hanno accolto nel complesso 500 persone, soprattutto rifugiati ma anche richiedenti asilo.
«Quando famiglie e rifugiati si incontrano, quando vivono insieme la quotidianità, cambia lo sguardo di quel singolo rifugiato non solo sulla famiglia in cui vive, ma anche su porzioni più ampie della comunità. E viceversa, lo sguardo delle famiglie parte dai migranti conosciuti in carne ed ossa e si posa in modo differente sugli altri stranieri che vivono nelle nostre città, e arriva a toccare e trasformare la gente, che comincia a vedere nello spazio pubblico una possibile relazione di intimità tra rifugiati e autoctoni».
A 10 anni dalle prime sperimentazioni, fa il punto sull’accoglienza in famiglia di richiedenti asilo e rifugiati l’approfondimento del Report 2018 della Fondazione Migrantes Il Diritto d’asilo. Accogliere, proteggere, promuovere, integrare presentato oggi a Ferrara.
In principio fu “Rifugio diffuso”
«Aprire le porte della propria casa e ospitare per un periodo più o meno lungo un rifugiato è diventato un’esperienza possibile anche in Italia e, per centinaia di famiglie, è già una realtà», tira le somme l’autrice, la sociologa Chiara Marchetti.
I primi esperimenti sono stati quelli del Comune di Torino con il progetto “Rifugio diffuso” avviato nel 2008, altri ne sono arrivati soprattutto a partire dal 2015, con la cosiddetta “crisi europea dei rifugiati”.
Sono sette le iniziative di accoglienza in famiglia locali o nazionali studiate nel Report della Migrantes: oltre al torinese “Rifugio diffuso”, i “Rifugiati in famiglia” dei Comuni di Parma e Fidenza col CIAC, il “Progetto Vesta” della coop Camelot con il Comune di Bologna e l’ASP Città di Bologna, “Rifugiato in famiglia” del Comune di Milano, il “Progetto rifugiato a casa mia” di Caritas italiana con 78 Caritas diocesane, “Refugees Welcome” di Refugees Welcome ONLUS e “Accoglienza diffusa” del consorzio COALA, nell’astigiano.
Negli ultimi tre anni, nel complesso oltre 400 nuclei familiari vi hanno accolto 500 persone, soprattutto rifugiati ma anche richiedenti asilo; quattro iniziative sono finanziate con fondi SPRAR, una con fondi CAS, una (“Rifugiato a casa mia” della Caritas) con fondi CEI dell’8 per Mille e una tramite fund raising e donazioni di fondazioni private (v. il riquadro qui sotto).
Perché in famiglia?
Sono tre le ragioni principali che rendono l’esperienza dell’accoglienza in famiglia particolarmente significativa in questi anni. Prima fra tutte, un sistema di accoglienza che, pur in crescita, continua a tagliar fuori moltissimi rifugiati: sono appena 18 mila i beneficiari di protezione (quindi non più richiedenti asilo) che hanno avuto un posto nella rete SPRAR nel 2016, a fronte di un tasso di riconoscimento delle domande attorno al 40%, pari a decine di migliaia di persone.
Seconda ragione, la scarsità di efficaci politiche per l’integrazione che incontrano i beneficiari usciti dall’accoglienza. E terza, «il peggioramento della “percezione” degli italiani nei confronti degli stranieri in generale, ma più specificamente nei confronti di profughi e rifugiati».
«Nonostante questi motivi di preoccupazione – osserva tuttavia Marchetti -, va sottolineato che in diversi contesti è stato rilevato in parallelo un incremento della sensibilità e del desiderio di attivazione, con manifestazioni di solidarietà, espressioni concrete di vicinanza e aiuto, organizzazione dal basso di servizi e supporto materiale e sociale».
… E ora si può crescere
Provando a distinguere fra esperienza ed esperienza, l’analisi del Report 2018 della Fondazione Migrantes sottolinea che è importante valorizzare in particolare «quelle situazioni in cui l’accoglienza in famiglia si integra nel sistema dei servizi pubblici di welfare universale, nelle pratiche di cittadinanza, riducendo la distanza tra un sistema dedicato di servizi (quello per i richiedenti asilo e i rifugiati) e il nulla che segue una volta usciti dall’accoglienza. La partecipazione degli enti locali, attraverso i progetti SPRAR ad esempio, risulta da questo punto di vista un elemento necessario, anche se non sufficiente, per immaginare pratiche di convivenza interculturale e di cittadinanza che vadano a integrarsi nell’immaginario e nelle pratiche dei servizi, delle istituzioni e delle comunità».
Quella dell’accoglienza in famiglia è, in Italia, un’esperienza iniziata dal basso, dalla volontà e dall’intuizione di pochi, come spesso accade in questo campo.
Ma ha ormai tutte le chance per diventare molto più diffusa e per far crescere nuove possibilità di incontro e di relazione: per il rapporto della Migrantes «può aumentare quegli spazi di comprensione e solidarietà, invece che di chiusura e contrapposizione, di cui hanno tanto bisogno sia il nostro Paese che l’Europa».
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