Secondo un’analisi finalmente complessiva sugli esiti e la “performance” dell’intero sistema italiano di valutazione dei richiedenti asilo, dalle decisioni delle Commissioni territoriali ai ricorsi presso i Tribunali, le corti d’Appello e la Cassazione, trova accoglimento oltre la metà delle domande di protezione. Ma dei 386 mila richiedenti esaminati nelle Commissioni fra 2016 e 2020, alla fine ben 157 mila rimarranno senza un permesso di soggiorno, in una situazione di vulnerabilità e precarietà. E negli anni il rischio di diniego ma anche del respingimento di un ricorso è aumentato.
La tutela dei richiedenti asilo? In questi ultimi anni si è mossa in un territorio dai confini sempre più incerti. Mentre loro, i richiedenti, «raramente» hanno ricevuto attenzione «in quanto soggetti attivi del proprio destino». Sono le conclusioni a cui giunge un contributo di Monia Giovannetti (socia ASGI e membro del comitato di redazione della rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza) pubblicato su Questione Giustizia.
La ricercatrice ha studiato gli esiti e la “performance” dell’intero sistema italiano di valutazione dei richiedenti asilo, dalle Commissioni territoriali ai ricorsi giurisdizionali presso i Tribunali, le corti d’Appello e la Cassazione fra il 2016 il 30 giugno 2020. L’anno di partenza, il ’16, è il primo che consente lo studio di dati attendibili sui ricorsi in sede giurisdizionale.
Uno su due alla fine ce la fa…
In questi quasi cinque anni, le Commissioni territoriali hanno esaminato poco meno di 386 mila richiedenti asilo, riconoscendo una qualche forma di protezione (status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione umanitaria o “speciale”) al 32% di loro, cioè a meno di 125 mila persone.
Ma nello stesso periodo gli organi giudiziari hanno ricevuto ben 269 mila ricorsi in materia. Fra questi ultimi, quelli già definiti hanno avuto un esito favorevole ai ricorrenti in oltre un caso su tre.
«Seguendo la traiettoria degli esiti e tracciando il passaggio dalla fase amministrativa a quella giurisdizionale – calcola Giovannetti -, possiamo ragionevolmente pensare che siano state complessivamente 182 mila le persone alle quali è stato riconosciuto un titolo volto alla protezione e tutela nell’arco di tempo considerato (il 47,3% dei casi esaminati in Commissione)».
Se a questi si somma una stima sugli oltre 143 mila casi ancora pendenti al 30 giugno 2020, considerando i tassi di accoglimento registrati nel periodo «potremmo giungere a ipotizzare che coloro i quali giungeranno ad avere un titolo di soggiorno per protezione e dintorni saranno il 59% (ovvero sei su 10)».
… ma il rischio di dinieghi e rigetti è aumentato
Tutto questo ha però un risvolto dai contorni pesanti. Dei 386 mila richiedenti esaminati in Commissione territoriale fra 2016 e 2020, alla fine ben 157 mila rimarranno senza un permesso di soggiorno, «in condizioni di vulnerabilità e precarietà socio-economica, anche a seguito e conclusione dell’iter amministrativo e giurisdizionale».
Anzi, nel periodo il rischio di “precarizzazione” legato a dinieghi e rigetti è aumentato. Nelle Commissioni territoriali gli esiti positivi sono scesi dal 41% prima del ’17 al 25% nel triennio successivo. Mentre in Tribunale si è passati dal 41% al 31%, e in Cassazione dal 24% al 21%.
«Questo rischio di maggior precarizzazione legato ai non riconoscimenti è andato aumentando – spiega Giovannetti – a seguito dell’abolizione del permesso umanitario e anche, probabilmente, a causa del “minor approfondimento concesso dalla soppressione del doppio giudizio di merito in un procedimento con specifiche peculiarità probatorie” (l’abolizione della chance del ricorso in Appello sancita dalla legge 46/2017, ndr)».
Del resto, purtroppo è «naufragato» anche il tentativo, da parte dei governi dell’ultimo quinquennio, di velocizzare i percorsi di valutazione dei richiedenti asilo, sia in sede di Commissione territoriale sia, soprattutto, giudiziaria.
Così «è indiscutibile che il limbo nel quale versano i richiedenti in attesa della definizione dello status giuridico crea difficoltà e incertezze sul proprio percorso di integrazione lavorativa e sociale e ne condiziona l’interazione con le opportunità presenti sul territorio».
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