Da un episodio di autolesionismo in un’accoglienza di Asti a una riflessione più ampia sul senso del fare accoglienza nel sistema dell'”emergenza Nord Africa” 2014-2015. L’amara denuncia del PIAM: di fronte ai tanti, troppi dinieghi di fronte alle domande di protezione, perché «impegnare risorse e persone in lunghi percorsi di accoglienza per poi espellere i beneficiari di questi servizi»? Al costo di 1.000 euro al mese a persona «stiamo creando, con spreco di risorse pubbliche, una nuova categoria di invisibili chiamati clandestini».
Qualche giorno fa, il 18 marzo, un giovane gambiano di 30 anni in accoglienza nelle strutture del Consorzio COALA di Asti ha saputo che la sua domanda di protezione era stata respinta per la seconda volta, e che dunque doveva lasciare il luogo in cui è ospitato. Ha avuto una crisi di disperazione e ha cercato di gettarsi dalla finestra. Gli operatori del COALA lo hanno bloccato e hanno chiamato il 118.
Il giovane è stato poi accolto in una comunità psichiatrica. Ma dopo? «Che ne sarà di questo ragazzo? – ha chiesto Alberto Mossino, responsabile accoglienza migranti PIAM/COALA, in una comunicazione indirizzata al viceprefetto reggente di Asti Paolo Ponta e ad altri organi dello Stato -. Un passaggio così delicato come la comunicazione della fine del periodo di accoglienza con conseguente obbligo di allontanarsi dall’Italia non deve essere delegato alle associazioni ospitanti, ma compete alla Prefettura».
Il giovane gambiano, aggiunge Mossino, è il primo di un gruppo di circa 70 “diniegati” in carico al Consorzio Coala. «Adesso cosa succederà con gli altri? Abbiamo la percezione che se ieri il ragazzo si fosse veramente buttato giù dalla finestra o avesse compiuto atti gravi di autolesionismo, allo spargersi della notizia fra gli altri ospiti dell’accoglienza è probabile che si sarebbe scatenata una rivolta».
Mossino propone la concessione della protezione umanitaria a tutti i richiedenti asilo arrivati dalla Libia. Si tratterebbe di «un passaggio fondamentale per evitare problemi di ordine pubblico». Ma soprattutto, «non ha senso impegnare risorse e persone in lunghi percorsi di accoglienza, per poi espellere i beneficiari di questi servizi. È una questione non solo umana, ma profondamente politica e chiediamo di affrontarla in quanto tale».
DOCUMENTO – “RIDOTTI A GESTIRE IL DISORDINE SOCIALE: NON È COSI’ CHE DOVEVA ANDARE”Con un’amara riflessione, in questi giorni il PIAM di Asti (Progetto integrazione e accoglienza migranti Onlus, che fa parte del consorzio COALA-Consorzio sociale Alessandria Asti e del coordinamento Non solo asilo) ha tracciato il bilancio di un anno di esperienza nel settore dell’accoglienza. Ne pubblichiamo un ampio stralcio. «Nel marzo 2014 […] sono arrivati ad Asti i primi 40 ragazzi africani. Ci siamo attrezzati in fretta ed emergenza per dar loro una buona accoglienza. Non sapevamo ancora che ne sarebbero arrivati ancora molti, di diverse nazioni. Africa, Medio oriente, Asia. Giovani, famiglie, donne, bambini. In tutto più di 500. […] Abbiamo iniziato a convivere con questi ragazzi, a conoscerne le pene e le aspirazioni. Abbiamo ascoltato storie di guerra, miseria, soprusi. Viaggi allucinanti e speranze infinite. […] Ora, a distanza di un anno, abbiamo le idee più chiare. Abbiamo lavorato, speso tempo, energie e denaro pubblico non in nome della solidarietà, bensì per creare dei problemi di ordine pubblico. Sì, perché nonostante il nostro impegno ad accompagnare questi giovani e vigorosi ragazzi verso l’integrazione nella società italiana, promuovendo corsi di italiano e di formazione, sostegno psicologico e legale, attività sociali e sportive, tirocini lavorativi, ora ci troviamo di fronte al giudizio della Commissione e del Tribunale per il riconoscimento del diritto di asilo. Commissione e Tribunale che spesso, troppo, quando valutano le condizioni e i vissuti di queste persone, decidono di non riconoscere loro neanche una minima protezione umanitaria. E così lo Stato italiano, dopo aver speso circa 1.000 euro al mese per accogliere questi ragazzi, spesso per più di un anno, decide di mandarli via, di non riconoscere loro nessun diritto. E queste persone dove andranno? Cercheranno ancora una volta di arrangiarsi e, con il risentimento di chi si è visto rifiutato, andranno a sovraffollare abitazioni fatiscenti, a occupare un posto dove vivere. Resteranno comunque in Italia vivendo di espedienti e sfruttamento, nell’attesa di una sempre più improbabile sanatoria. Stiamo creando, con spreco di risorse pubbliche, una nuova categoria di invisibili, impropriamente chiamati clandestini. E lo Stato tornerà comunque ad occuparsi di loro come problema sociale di ordine pubblico. Sarebbe molto più sensato riconoscere a queste persone un diritto minimo di cittadinanza, un permesso di soggiorno, e dar loro modo di giocarsi le proprie carte nella legalità. D’altronde perché allora aver speso così tanto denaro pubblico per creare irregolari? E invece si opta per il nonsense. A conti fatti, un anno fa se avessimo saputo dove stavamo andando, probabilmente non avremmo accettato di farci complici ed esecutori di questa follia. Credevamo nel valore dell’accoglienza, della solidarietà, dei diritti. Ci troviamo invece invischiati nelle gestione del disordine sociale. Non è così che doveva andare» (PIAM-COALA, marzo 2015). |
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