Testimonianze e incontri in due case occupate da rifugiati a Torino: quella “storica” di via Paganini angolo via Bologna, dove vive una comunità di 40 persone, perlopiù sudanesi, e quella più recente di via Madonna della Salette, con 70 abitanti, occupata a gennaio soprattutto da rifugiati che avevano già cercato un tetto nelle palazzine dell’ex Moi del Lingotto.
«Potevate dircelo che è stata occupata un’altra casa che è un po’ meglio di questa: ce ne andavamo anche noi da qui!», scherza uno dei rifugiati del “gruppo di gestione” di via Paganini angolo via Bologna. Sudanese del Darfur, abita in questa casa occupata con altri 40 rifugiati perlopiù sudanesi, ma anche maliani ed eritrei.
Quella di via Bologna è la casa di rifugiati “storica” a Torino. L’occupazione risale al novembre 2007, quando un gruppo di sudanesi entrò in questa casermetta dei vigili urbani abbandonata dopo aver lasciato una fabbrica dismessa e fatiscente, senz’acqua e senza luce, nella terra di nessuno fra Settimo e Torino.
La comunità è arrivata a contare 130 persone. «Tutti con un diritto d’asilo riconosciuto ma senza casa – commenta ancora il giovane del gruppo di gestione -. Adesso in queste stanze vedi dei letti, ma in quel periodo sarebbe stato impossibile farceli stare tutti. All’inizio eravamo di meno, ma quando ti arriva uno che non sa dove andare a dormire, che cosa puoi dirgli? Solo “entra”».
Due stanzoni al pian terreno, tre stanze al primo piano e tre all’interrato. Acqua, luce, riscaldamento. Ma la struttura è davvero malmessa oltre che, ovviamente, inadatta a un soggiorno di lunga durata. Gli abitanti hanno lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria: quasi tutti i sudanesi sono fuggiti dalla guerra civile in Darfur dove, se possibile, «la situazione è ancora peggiore di qualche anno fa».
Se la libertà è una carta di soggiorno
I rifugiati di via Bologna che hanno trovato un lavoro si contano sulle dita di una mano, o poco più. «Abbiamo fatto il gruppo di gestione. Cerchiamo di darci una mano fra noi: anche chi non ha un euro qui può mangiare e sopravvivere. E chi lavora non se ne va per aiutare gli altri: se dovesse anche pagare un affitto non ce la farebbe».
Più che alla nuova residenza adottata dalla Città a fine 2013, gli abitanti di via Bologna guardano al permesso di soggiorno di lungo periodo, quello che gli permetterebbe di andarsene dall’Italia in crisi e di cercare lavoro nell’Ue. «Siamo qui da ben prima dell’emergenza Nordafrica, da più di cinque anni… ma ci dicono che la legge per noi non c’è ancora. Io adesso sono uno di quelli che lavora in un bar ristorante, forse mi assumeranno, sinceramente non so cosa farei. Ma tanti di noi non hanno motivi per restare qui. In questi anni sono stato anche in Olanda e in Norvegia, ci ho lavorato nero, poi sono ritornato a Torino perché c’erano troppi controlli. Ma là un lavoro lo trovi, anche in due settimane».
“Almeno qui, dei muri fatti per durare…”
«Potevate dircelo»: in fondo, in via Bologna hanno ragione. In via Madonna della Salette, nella più giovane delle otto case torinesi occupate da rifugiati, le cose non vanno poi così male dal punto di vista murario. Anche qui una palazzina inutilizzata, un’ex casa di riposo dei missionari Salettiani. Ma camere abitabili, intonaci decenti. L’edificio è stato occupato il 17 gennaio, un mese e mezzo fa, da un gruppo di rifugiati dell'”emergenza 2011″ e di migranti.
Oggi ci abitano circa 70 persone, spiegano due volontari del Comitato solidarietà rifugiati di Torino e uno dei residenti: «In maggior parte sono rifugiati che vivevano nelle palazzine dell’ex Moi: in questa stagione invernale sono sovrappopolate e qui in via Madonna della Salette l’edificio è sicuramente più vivibile, anche se più vecchio, perché è stato fatto per durare», a differenza dell’edilizia usa e getta del Villaggio Olimpico del Lingotto.
Ma del gruppo fanno parte anche alcune famiglie con bambini rimaste senza casa. Varie le nazionalità di provenienza: Mali, Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Bangladesh, Marocco, Nigeria.
“Adesso abbiamo una casa. Ma poi?”
Grazie alla mediazione dell’Ufficio pastorale migranti della Diocesi la proprietà ha accettato di pagare provvisoriamente luce e acqua, che erano state staccate.
E le pratiche per la nuova residenza anagrafica? «Le cose vanno un po’ a rilento, rischia sul serio di essere una concessione virtuale che continuerà a tagliar fuori le persone dai servizi sociali. Ma è già qualcosa: almeno ha fatto capire al Comune che non puoi far finta che 600 persone non esistano», dicono ancora i volontari del Comitato.
Ma intanto, anche alla casa dei Salettiani il primo problema torna ad essere il lavoro. Dice un giovane maliano in protezione sussidiaria, 21 anni: «Qui sto in una camera per due, abbiamo pulito le stanze e gli spazi comuni, si sta meglio che negli scantinati del Moi: ho una “casa”. Però adesso devo trovare un lavoro. Ho raccolto frutta nella zona di Saluzzo, adesso faccio un corso da muratore, ma nel tempo libero cerco un posto per poter aiutare la mia famiglia in Mali».
Gli fa eco un senegalese di 37 anni, in protezione umanitaria dopo essere sbarcato a Lampedusa nel 2011: «Qui è più tranquillo, ma non c’è nessuno che abbia un lavoro. Come si può vivere così in un mondo dove tutto costa?».
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