La prima indagine nazionale sulle condizioni abitative dei braccianti in agricoltura ha censito 150 “insediamenti informali” in 38 comuni, al Sud, al Centro e anche al Nord. Ci “vivono” 10 mila persone, per il 30% richiedenti asilo o rifugiati. “Se i servizi essenziali sono scarsi, gli interventi socio-sanitari e quelli per l’integrazione risultano praticamente assenti”.
Li chiamano insediamenti “informali”, o “spontanei”. Ma sono fatti di squallidi casolari, edifici occupati, baracche, tende, roulotte. La prima indagine nazionale sulle condizioni abitative dei migranti che lavorano come braccianti in agricoltura ne ha censiti 150 in 38 comuni italiani, al Sud, al Centro, al Nord. Ci “vivono” 10 mila persone, per il 30% richiedenti asilo o rifugiati. Mentre in oltre un insediamento su cinque abitano anche famiglie con minori.
In questi “ghetti” «le condizioni di vita risultano estremamente precarie – certifica il rapporto d’indagine Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, appena pubblicato dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e dall’ANCI -. Se i servizi essenziali, negli insediamenti informali, sono scarsamente presenti, gli interventi socio-sanitari e, più in generale, tutti quelli finalizzati a favorire l’integrazione dei migranti risultano praticamente assenti».
Solo un centro su sette fruisce di assistenza socio-sanitaria e solo uno su 10 vede un assistente sociale, un mediatore culturale o fruisce di assistenza anti-caporalato o contro il lavoro nero. Meno di uno su 20 gode di rappresentanza sindacale. Mentre appena due centri, in cfra assoluta, sono stati coinvolti in percorsi di integrazione socio-lavorativa.
Centri “informali” anche al Nord
Commentano i curatori del rapporto: «È comprensibile ipotizzare che la mancanza di servizi possa tradursi frequentemente in mancanza di prospettive: è difficile immaginare che possano avvenire cambiamenti sostanziali se sono completamente assenti servizi di supporto e orientamento».
Dei 38 Comuni rispondenti all’indagine ANCI-ministero del Lavoro che hanno dichiarato la presenza di insediamenti informali , ben 21 si trovano al Sud e otto nelle Isole, ma quattro sono del Centro e cinque del Nord: Saluzzo e Alba (CN), Albenga (SV), Castelguglielmo (RO) e Rovigo. Gli insediamenti più abnormi, invece, sono un triste primato del Foggiano: Borgo Mezzanone a Manfredonia, con 4.000 presenze, e il “ghetto” di Rignano a San Severo, con 2.000.
L’indagine ha studiato anche le strutture alloggiative “formali”, cioè attivate da soggetti pubblici o privati (foresterie, dormitori, tensostrutture, fino agli appartamenti di housing sociale o in ambito SAI) e qui, naturalmente, la situazione dei servizi per i braccianti non italiani è migliore. Tra l’altro, «la segnalazione relativa ai casi che riguardano gli episodi di caporalato mostrano che la situazione è più critica negli insediamenti informali (nel 25,8% dei casi) che in quelli formali (10,4%)».
Ha risposto la metà dei Comuni
Alla ricerca, rivolta dai curatori a tutti i Comuni italiani e promossa nell’ambito del Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022, ha risposto meno della metà delle amministrazioni. Fra queste ultime, sono 608 quelle che rilevano nel proprio territorio la presenza di lavoratori stranieri occupati nel settore agroalimentare.
Riferisce ancora il rapporto: «I risultati della mappatura indicano che in diversi Comuni la strada disegnata dal Piano triennale sia già stata intrapresa, ma che per la maggior parte delle realtà locali sia ancora tutta da percorrere».
Lo sfruttamento dei migranti in agricoltura? “La più grande mutazione antropologica degli ultimi decenni al Sud”«I fenomeni di sfruttamento lavorativo e caporalato non sono né territorialmente circoscritti né recenti. Sono problematiche afferenti a “schemi mentali, prima ancora che produttivi, ben definiti e radicati”. L’immigrazione non ha generato questa situazione ma la sta trasformando e caratterizzando attraverso una progressiva sostituzione degli autoctoni sia sul versante dei lavoratori che su quello dei caporali, portando a un conseguente innalzamento dei margini di profitto e producendo quella che è stata definita “la più grande mutazione antropologica” degli ultimi decenni nel Mezzogiorno d’Italia. […] La prioritaria caratteristica delle trasformazioni che stanno avvenendo in questo ambito è indotta dal fatto che i migranti sono considerati estranei al contesto sociale e abitativo dei territori e quindi non godono del sostegno e del rispetto collettivo. I trattamenti riservati ai migranti “non si sarebbero mai potuti imporre al bracciante locale. Perché, anche nei paesi pugliesi dove il caporalato classico persiste, caporali e braccianti finiscono per essere parte della stessa comunità”, e questo poneva un argine al peggior sfruttamento. Emerge, dunque, “la centralità stessa della segregazione spaziale-abitativa rispetto allo sfruttamento del lavoro”, dove la “sistemazione spaziale rafforza la sovrapposizione di lavoro, tempo libero, riposo e più in generale la riproduzione della vita quotidiana di un individuo o di un gruppo in un unico luogo”. Insediamenti informali e fenomeni di ghettizzazione non sono quindi problematiche esclusivamente abitative e non riguardano solo i migranti, ma aggravano le condizioni lavorative, economiche e sociali di interi territori». (dal rapporto Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare). |
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