* di Jacopo Baron Nel 2011, nel pieno di quella che è oggi conosciuta come “Emergenza Nordafrica”, alcuni richiedenti asilo vengono destinati, dalla Prefettura di Torino, al Centro specializzato per la Cura dell’alcolismo e delle patologie correlate di Sommariva del Bosco (CN), centro gestito dall’associazione Cufrad. Tra questi richiedenti asilo c’è un ragazzo nigeriano, Richie, che oggi ci ha raccontato la sua esperienza. «Ci hanno detto che la prima cosa da fare era imparare l’italiano, ma nessuno organizzava un corso, o una classe» ci spiega Richie con tono deciso «allora dopo qualche giorno ho chiesto, di nuovo, che ci insegnassero l’italiano e alla fine, dopo due settimane di attesa, hanno cominciato a spiegarci qualcosa. Dopo tre mesi però, tutto finito: volevano che pagassimo diciassette euro». Richie al Centro continua a fare domande, cerca di capire, esige quello che gli è stato promesso e contesta pratiche decisamente poco chiare, passando per “ospite scomodo”: «avrebbero dovuto darci del pocket money, giusto? Al Centro invece prima non ci hanno dato nulla, poi tre sigarette a testa. Alla fine, hanno cominciato a darci dei pezzi di carta sui quali scrivevano a penna “due euro e cinquanta”. Loro ci davano questi foglietti, noi li restituivamo, e in cambio si otteneva, a seconda delle volte, una bottiglia di CocaCola, un chilo di farina… e tutto costava due euro e cinquanta!» Mentre ci parla di Sommariva Bosco, la voce si scuote e i suoi occhi cercano di incrociare i nostri, in cerca di sostegno: «e non si poteva nemmeno accumularli, questi foglietti, capite? Perché dopo una settimana “scadevano”. Ma come fanno a scadere i soldi? Io so bene che quelli non erano soldi, ma non potevamo farci niente: ci trattavano come bambini!».
Per tutto il Piemonte
Richie, però, non è più un bambino. «In Nigeria, prima di andare in Libia, ho fatto il college, ed ero anche bravo. Poi con la guerra ho passato il mare e in Italia ho fatto richiesta d’asilo: ero da solo, non conoscevo nessuno». Dopo l’esperienza di Sommariva Bosco, Richie comincia a cercare lavoro nei vari paesi della provincia, ma i risultati sono sconfortanti: «Ho raccolto frutta per un mese, a Saluzzo, ma poi più nulla». Richie elenca con la precisione di un piemontese tutti i piccoli paesi della provincia in cui ha cercato lavoro, indicandoli sulla punta delle dita: «Sono stato a Fossano, Alessandria, Mondovì… non trovavo niente e sui pullman con cui mi spostavo da un posto all’altro le persone si comportavano in maniera razzista. Allora io chiedevo perché, e loro dicevano che dovevo andarmene, che gli toglievo il poco lavoro che c’era». Viste le difficoltà, Richie alla fine se ne va per davvero, ma anche questa esperienza si conclude in un nulla di fatto: «Sono stato a Vienna ma anche lì è stato molto difficile. La città è grande e ve l’ho detto, io non conosco nessuno… né lì, né in Italia o altrove, in Europa. Sono rimasto a Vienna per tre mesi, abitavo in un garage, un posto consigliatomi da un altro nigeriano. Poi, scaduto il termine sono rientrato in Italia. Non volevo infrangere la legge».
Non voglio elemosina!
E così Richie, alla fine, è tornato a Torino: «ora vivo in città, all’ex-Moi. Ho ripreso a studiare italiano, e adesso faccio un tirocinio come muratore ma non mi hanno ancora pagato. È difficile studiare quando lavori così tanto: a volte sto proprio male, perché sono stanco e sul lavoro ho fame ed è tutto così difficile… nessuno lì sa come sto. Nessuno pensa mai di chiedermelo…» Richie fa dei lunghi sospiri, abbassa la testa, la scuote piano e con le mani si stringe le ginocchia. Ma è solo un momento: un attimo dopo è di nuovo quello di prima e con la testa alta, guardandoci nuovamente negli occhi, si indica il petto: «Io ho ventitre anni, sono giovane, non ho bisogno di chiedere l’elemosina per strada. Non ho bisogno di aiuto: sono forte, voglio solo lavorare. Solo lavorare. Un uomo deve lavorare: solo così può costruirsi un futuro. Con il lavoro». Richie continua ad annuire, come per prolungare la profonda in convinzione di ciò che ci ha appena confidato. Resta ora da capire se questo Paese sia in grado, come noi si è tentato oggi, di sostenere il suo sguardo e ascoltare le sue parole, difendendo la sua ricerca di un futuro migliore.
1 commento
Dopo aver attraversato il mare si trovano spiazzati e disorientati in un mondo tanto diverso dal loro. Ma hanno le idee chiare, vogliono un lavoro per poter ricostruire mattone per mattone la nuova vita in Europa. Ció di cui ho paura è che molti di loro soffrano una crisi d’identità, si trovano soli, in piú le persone li schivano a distanza pensando che siano solo dei poveracci. Il governo dovrebbe ascoltare le loro richieste. Questi ragazzi portano con sé un’immensa ricchezza ma noi la calpestiamo, ci sentiamo “superiori”, forse o abbiamo paura del diverso. Ci vorrebbe integrazione e piú comunicazione!