Il mese di aprile 2011 è stato ricco di sorprese per quanto riguarda i rapporti italo-tunisini. Due provvedimenti apparentemente in contraddizione tra loro vengono messi in atto. Da una parte arriva per 14.500 tunisini la possibiltà di un permesso di soggiorno di 6 mesi per motivi umanitari e dall’altra, con l’intero Maghreb in fiamme, Roma firma un accordo bilaterale con Tunisi. Da questo momento in poi la sorte di un popolo in movimento di fuga è segnata.
Tecnicamente definito “accordo tecnico sulla cooperazione tra i due Paesi contro l’immigrazione clandestina” il documento in esame prevede oltre al rafforzamento della collaborazione tra forze di Polizia, anche i rimpatri. Con questo accordo, in particolare, l’Italia si impegna ulteriormente nel limitare la proprio responsabilità giuridica solo entro il margine delle proprie acque territoriali, negando di fatto il diritto di non refoulement, cioè di non respingimento per le persone che potrebbero essere riconosciute come rifugiati politici. Il contenuto dell’accordo non è stato ancora reso pienamente pubblico, ma la cronaca registrata in questi mesi sembra riproporre i tre punti dei concordati italo-libici da più parti criticati: sorveglianze delle frontiere, finanziamenti a centri di detenzione e rimpatri.
Questa volta tocca ai tunisini. Il 21 agosto 2011 si ha notizia di un respingimento collettivo di 104 migranti, tutti tunisini. Non si tratta di un caso isolato, ma è il primo che trova spazio sui media nazionali. La procedura è semplice, ai limiti della superficialità: le unità navali della marina avvistano le barche dirette a Lampedusa da ovest, seguendo quella che viene definita “la rotta tunisina”, chiedono l’intervento della Guardia di Finanza, preposta alla difesa delle frontiere e al controllo dell’immigrazione irregolare, che intercetta l’imbarcazione. Qui avviene l’identificazione che deve giustificare il respingimento e il conseguente rimpatrio. Gli elementi su cui si basa il respingimento sono due: la rotta a ovest di Lampedusa e i tratti somatici. In mancanza di documenti infatti i militari devono intuire a occhio se i migranti sono arabi, subsahariani, somali o altro ancora. A questo punto, se viene riconosciuta la “respingibilità” (essenzialmente sulla base della nazionalità e non sulla base dell’effettiva condizione di ogni singolo individuo, come previsto dalla Convenzione di Ginevra), i migranti vengono imbarcati su una nave italiana e poi trasbordati di nuovo su una motovedetta tunisina. Destinazione: rimpatrio, motivazione: migrazione economica.
L’identificazione veloce in mare stride fortemente con il decreto legge, approvato dal Parlamento il 2 agosto 2011, per cui possono servire fino a 18 mesi di trattenimento in un CIE per identificare un immigrato. Inoltre la legge non prevede provvedimenti collettivi di allontanamento dal territorio. L’Italia dovrebbe garantire l’accesso al territorio, alla procedura di asilo anche ai tunisini e respingendo in mare, senza una reale identificazione e senza permettere l’accesso a un esame individuale, pare una palese violazione del principio di non refoulement.
Se qualche barcone di tunisini riesce ad arrivare ugualmente a Lampedusa (dal 1 al 21 agosto sono state 497 le persone di nazionalità tunisina registrate nell’isola) scatta la reclusione nei CIE – il primo è proprio quello di Lampedusa – la privazione della libertà e un’incertezza lunga più di un anno che sfocia quasi sempre in una seguente clandestinità o in un rimpatrio forzato. Non a caso la realtà isolana è scoppiata il 21 settembre 2011 con incendi e devastazioni, naturale conseguenza di mesi di incarcerazioni, umiliazioni, silenzi e ritardi.
Si stanno intensificando anche le fughe dai CIE in tutta Italia, in primis da quello di Roma Ponte Galeria dove fra agosto e settembre 2011 sono riusciti a evadere più di un centinaio di persone seguito da quello di Torino che ha registrato due fughe per un totale di 34 persone.
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