Marco Calabrese, collaboratore di Vie di fuga, ha trascorso un mese in Palestina. Partito come volontario per il progetto “Accompagnamento non violento alla raccolta delle olive”, organizzato da Servizio Civile Internazionale, Rete IPRI, Un Ponte Per, Centro Studi Sereno Regis e Assopace Palestina racconta qui la sua esperienza.
Raccontare un mese in Palestina in poche righe non è facile. Bisogna tagliare, condensare e semplificare meccanismi che noi occidentali possiamo soltanto provare a capire, senza mai però poterli comprendere del tutto. Bisognerebbe diventare palestinesi a tutti gli effetti e solo così si potrebbe comprendere a pieno cosa si prova a vivere sotto un’occupazione che dura da quasi settant’anni. Solo in questo modo si potrebbero comprendere a pieno le sofferenze dovute alla distruzione di interi campi di uliveti e alle innumerevoli violazioni dei diritti umani.
L’occupazione israeliana, però, non si limita soltanto a questo: ulivi dati alle fiamme e violazioni dei diritti umani passano in secondo piano quando si comincia a parlare di omicidi o vere e proprie esecuzioni prive di un valido motivo. Sono tante le persone che abbiamo conosciuto, e quasi tutti hanno perso un parente, un amico, o troppo spesso più di uno. In tutta la Cisgiordania è possibile ascoltare storie strazianti di come soldati o coloni israeliani abbiano spezzato vite innocenti, lasciando mogli vedove e figli orfani. Ma nessuno perde mai la voglia di parlarne. Sono pezzi della loro vita che non aspettano altro che essere raccontati, quasi gridati, e che sono riusciti a creare tra noi un legame tanto breve dal punto di vista temporale, quanto profondo sul piano emotivo.
Non si tratta solo di perdere parenti o amici. Sempre più spesso i palestinesi si vedono privati della terra su cui vivono, la terra che coltivano ogni giorno. È il cosiddetto land grabbing, ovvero quel processo per cui gli israeliani continuano, oramai dal 1948, ad impossessarsi illegalmente della terra palestinese, rivendicandola come propria in nome della religione e del legame storico con questa regione. Senza considerare tutto il territorio oramai riconosciuto come Israele, e soffermandoci solo sulla Cisgiordania si può capire quanto questo fenomeno sia diffuso e radicato. Anche al di là del cosiddetto muro di sicurezza le colonie israeliane continuano imperterrite la loro espansione, mangiando con palazzoni enormi e gru intere colline, un tempo palestinesi. È questa una delle cose che più mi ha lasciato sbalordito e incredulo: costruiscono un muro per “proteggere” i cittadini israeliani dagli attacchi dei palestinesi e al tempo stesso permettono che cittadini israeliani vivano dall’altra parte in insediamenti, che più che sembrare città sembrano delle prigioni dorate. È tutto assurdo, eppure è così.
“Assurdo”: probabilmente è questa la parola che più mi è passata per la testa durante questa esperienza. Certo, tristezza e rabbia erano emozioni e sensazioni quotidiane, ma niente, a mio parere, può superare l’assurdità della situazione che si è creata. L’assurdità nel vedere dei bambini palestinesi andare a scuola scortati da dei soldati israeliani, usati come deterrente per “proteggerli” dagli attacchi dei coloni, ovvero quelle persone che i soldati israeliani solitamente proteggono. L’assurdità della dilatazione temporale degli spostamenti: un percorso che normalmente si fa in mezz’ora, per un palestinese richiede almeno il triplo del tempo. L’assurdità dell’interrogatorio all’arrivo all’aeroporto e dei controlli maniacali alla partenza, neanche fossimo sospettati di terrorismo. L’assurdità delle spiegazioni delle guide turistiche israeliane, in grado di cancellare secoli di storia mentre accompagnano turisti o futuri coloni per le strade della città vecchia di Gerusalemme o di Hebron. Una realtà parallela, dove il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è sempre diverso a seconda della prospettiva da cui si osserva l’intera faccenda. Prospettive e punti di vista che, però, non riescono mai ad avvicinarsi, ad entrare in contatto e che tendono ad allontanarsi gli uni dagli altri.
Vedere e vivere in prima persona una realtà come quella della questione israelo-palestinese è un qualcosa che ti cambia profondamente. Non credo importi la quantità di tempo trascorsa insieme a queste persone: un mese, o anche una settimana, sono sufficienti per far sì che le loro storie, la loro sofferenza e la loro resilienza riescano a fare breccia nel cuore e nella mente di un internazionale. Forse non potrò mai capire tutto, non potrò mai essere un palestinese e vivere a pieno il dolore che provano quotidianamente, ma quello che so per certo è che quanto ho visto, sentito e condiviso con loro resterà per sempre con me, come le cicatrici che ogni uomo, donna o bambino di questa terra maledetta porta indelebili sul proprio corpo.
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