Yemen, aprile 2020: trapela la notizia che a Sana’a, la capitale controllata dal movimento degli Huthi, un tribunale ha condannato a morte quattro giornalisti. Hanno ancora la chance dell’appello, ma l’accusa è pesante: «collaborazione col nemico», anche se secondo Amnesty International questi professionisti hanno fatto semplicemente e pacificamente il loro lavoro. Tuttavia nel più travagliato e massacrato Paese della Penisola arabica le violazioni della libertà di stampa (fra cui molte altre) vengono da lontano e hanno attraversato i regimi, gli scontri e i conflitti civili. Vie di fuga ha raccolto la testimonianza di Ali al-Muqri, giornalista, saggista narratore e poeta yemenita che oggi vive come rifugiato in Francia.
«Ho sempre dovuto affrontare la censura. Ho iniziato a scrivere negli anni ’80 e già allora c’erano problemi col governo locale. Ma i problemi sono aumentati quando ho pubblicato degli articoli su islam e alcool, nel ’97. Sono stato attaccato dal ministro degli Affari religiosi e quindi da vari islamisti. Poi l’editore del libro che stavo preparando con questi articoli mi ha informato che non lo avrebbe pubblicato, anche se mi lasciava l’anticipo. Mi aspettavo di essere ammazzato in ogni momento. Però ho pubblicato il libro in samizdat, si è diffuso e alcuni anni dopo è uscito anche a Beirut. Non volevo “provare” che l’alcool sia lecito o meno, volevo solo mettere in evidenza le sfaccettature sull’argomento presenti nell’islam. Poi nel ’13 pubblicai il romanzo Donna proibita, sul fondamentalismo. Un docente lo adottò ma i genitori degli allievi ne chiesero licenziamento. E Al Qaeda fece sapere nel Paese che voleva la sua testa. Il professore fuggì in Egitto e loro, quindi, si concentrarono su di me, accusandomi di apostasia…».
Giornalista, saggista e narratore, Ali al-Muqri è nato nel 1966 a Taiz, nel nord dello Yemen. Ha lavorato per giornali progressisti, nel 2007 è stato direttore della rivista letteraria Ghaiman, ha collaborato fra l’altro con il New York Times. Ma soprattutto, si è fatto conoscere come uomo di lettere impegnato su temi “scomodi” e per la causa delle minoranze con i suoi romanzi e i suoi saggi.
Uno dei suoi romanzi è già stato tradotto in Italia (Il bell’ebreo, Piemme 2012). Donna proibita è uscito in Francia con il titolo Femme interdite nel 2015; anche in questo caso si prevede la traduzione italiana. L’ultimo titolo, pubblicato un mese fa sempre in Francia, è Le Pays du commandeur, ambientato in un Paese arabo immaginario dominato da un tiranno. Il primo romanzo, invece, uscito nel 2008 solo in arabo, ha un titolo che in italiano suona Sapore nero, odore nero ed è dedicato agli akhdam, la disprezzata minoranza afro-yemenita.
Per il suo impegno civile Ali al-Muqri ha ricevuto minacce di morte e responsi di fatwa: «Dopo lo scoppio della guerra (fra 2014 e 2015, ndr), non sapevi più chi avrebbe potuto ammazzarti, vuoi per la tua appartenenza politica o non appartenenza, per come vestivi, per il tuo accento regionale…». E nel 2015 ha deciso di lasciare lo Yemen per rifugiarsi in Francia.
Nel novembre 2019 ha partecipato a un incontro per la serie “Voci scomode” dell’associazione Caffé dei giornalisti, a Torino, dove Vie di fuga ha raccolto la sua testimonianza. Della tragica guerra “civile” che sta distruggendo il proprio Paese, al-Muqri dice: «La stampa araba la racconta in maniera sempre parziale, a seconda del padrone che la finanzia, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi o l’Iran. L’informazione è manipolata anche su Facebook e Twitter. Ma anche la stampa internazionale tende a semplificare, riducendo la guerra a un conflitto fra Arabia e Yemen. In realtà tutto è partito da un conflitto interno, trasformatosi in un conflitto regionale che ha come responsabili principali l’Iran e l’Arabia Saudita».
Però, avverte il giornalista-scrittore, non bisogna nemmeno ridurre lo scontro a un duello fra sciiti e sunniti: «In Yemen c’è una scuola zaidita che è vicina allo sciismo. Ma gli Huthi (il movimento politico e armato “ribelle” prevalentemente zaidita in guerra contro le forze “governative”, ndr) hanno un legame politico con l’Iran, e quindi un riferimento sciita che li sta allontanando dai riferimenti originali zaiditi, vicini a dottrine più moderate nell’interpretare la religione».
Yemen, tra la nuova crisi a Sud e il COVID-19Lo Yemen contemporaneo, all’estremo sudovest della Penisola arabica, è nato nel 1990 dall’unione dello Yemen del Nord, indipendente dal 1918, con quello del Sud, indipendente dal 1967, ma non è mai stato libero da scontri interni, secessionismi armati e attacchi terroristici. L’ultimo periodo ha visto anche la presenza nel Paese di gruppi “jihadisti” di Al Qaeda e dello Stato Islamico. Nel 2014 i “ribelli” Huthi si sono impadroniti, nel Nordovest del Paese, della capitale Sana’a, e dal 2015 il Paese è precipitato in una devastante guerra civile e regionale: su un fronte gli Huthi sostenuti dall’Iran, sull’altro il governo “legittimo” che è appoggiato da una coalizione di Paesi arabi guidata dall’Arabia Saudita. La guerra ha causato un disastro umanitario senza precedenti. Secondo l’UNHCR, nello Yemen «dall’inizio del conflitto nel 2015 più di 3.600.000 persone sono state costrette a fuggire dalle loro case. Con oltre 24 milioni di persone in tutto il Paese che hanno bisogno di assistenza, si tratta della più grande crisi umanitaria del mondo». Nella prima metà d’aprile di questo 2020 la coalizione a guida saudita ha proclamato un cessate il fuoco unilaterale di fronte all’emergenza globale da coronavirus. Ma a fine mese nel Sud la situazione si è aggravata dopo che la fazione separatista del Consiglio di transizione meridionale, sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti, ha proclamato l’autogoverno nella zona di Aden. Sempre il mese di aprile ha visto i primi casi e le prime vittime di COVID-19 nel Paese. Ad oggi lo Yemen occupa la 177a posizione su 189 Paesi nella lista ONU dello sviluppo umano e la 167a su 180 Paesi di quella della libertà di stampa curata da Reporters sans frontières. |
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