E’ il 2000. Anno che segna l’inizio della Seconda Intifada, un nuovo periodo di scontro tra israeliani e palestinesi. Il conflitto si inasprisce in forme accese e pone fine all’instabile processo di pace iniziato nel 1993. Il numero delle vittime cresce, come quello di quanti sono disposti a immolare la propria vita per la causa palestinese. Questo permette al governo di Israele di inasprire i controlli sui territori occupati, con la scusa di contrastare ulteriori atti violenti a danno della popolazione civile. Quale strumento permette un controllo simile, se non una barriera in grado di bloccare fisicamente chiunque tenti di valicarne i confini? Da qui l’idea della costruzione della “barriera di separazione israeliana”, soprannominata dai contrari alla sua edificazione “muro delle vergogna” o “dell’apartheid”. Il muro, alto circa otto metri e lungo 700 Km, disseminato di impianti di sorveglianza, recinzioni elettroniche e controllato continuamente dai militari, divide la Cisgiordania da Israele. Le polemiche I lavori di costruzione sono quasi conclusi. Negli anni trascorsi, il tracciato del muro è stato più volte modificato a seguito delle numerose polemiche sollevate a livello internazionale, che mettevano in dubbio la legittimità della recinzione. La barriera, infatti, viola i principi minimi dei diritti umani. Alla popolazione palestinese viene impedito il raggiungimento di alcune tra le zone più fertili del Paese, in cui si trovano la maggioranza dei territori coltivabili e circa trenta sorgenti d’acqua. Il muro rappresenta un tentativo piuttosto esplicito di indebolire ulteriormente la popolazione palestinese dal punto di vista sociale, economico e ambientale.