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Archivio Day: Febbraio 9, 2016

Nel Canale di Sicilia: “Qui è meglio se ognuno prega il suo Dio”

Ieri, nel 2011, la fuga dalla Libia nello sfacelo della guerra civile (e dell’intervento militare euro-americano): quasi storia, ormai. Oggi un permesso di soggiorno per motivi umanitari, un lavoro, una casa in affitto, una rete di relazioni. In mezzo, il soccorso in mare a 500 profughi e migranti su un barcone che girava a vuoto nel Canale di Sicilia. Quella che segue è la testimonianza di A. T., 25 ANNI, IVORIANO, residente a Torino. “È andata bene, nel senso che non è morto nessuno. Però sulla barca a un certo punto ci siamo detti che era meglio pregare ognuno il suo Dio. Seguo ancora oggi le notizie, nei mesi scorsi ho sentito che da una barca sono stati gettati in mare dei cristiani. Mi pare strano, non posso dire, forse è cambiato qualcosa. Noi però abbiamo pregato ognuno il nostro Dio, davvero. Sulla barca eravamo circa 500, non sapevamo bene dove andavamo”. Alla partenza funzionava così: prendevano qualcuno che non ne sapeva molto più di noi, ‘guardate, la rotta è quella, si fa così’, e via. Un’incertezza totale. Qualcuno diceva che stavamo andando in Brasile, o in Francia. Poco da mangiare, e io vomitavo sempre, anche l’acqua. E poi quel mare tutto intorno: un grande vuoto, fino a dove il cielo e l’acqua si toccano. Anche se un giorno abbiamo trovato dei pescatori, forse tunisini, che ci hanno indicato la direzione: ‘Dovete andare di là'”. “Alla fine dopo quattro giorni di viaggio ci ha trovati una nave della Marina italiana.

“Eritreo di madre etiope? Vita impossibile, non solo in Eritrea…”

“Mi chiamo G., sono nato ad Addis Abeba, in ETIOPIA, nei PRIMI ANNI ‘80. Mio padre è eritreo, mia madre etiope e io ho entrambe le cittadinanze dalla nascita. Sono rifugiato politico, lo status mi è stato riconosciuto da una Commissione territoriale italiana. Io però non ho potuto fermarmi in Italia perché mancava non solo il lavoro, ma anche qualsiasi possibilità di futuro. Ora vivo a Malta e faccio il lavapiatti in un ristorante…”. “Ho vissuto in Etiopia fino al 1997, anno in cui il conflitto fra Etiopia ed Eritrea si è riacutizzato. Io e la mia famiglia, essendo per metà eritrei, siamo stati cacciati dal Paese e tutti i nostri beni sono stati espropriati. La polizia etiope ci ha prelevato di notte dalla nostra casa e deportato in Eritrea, ad Asmara, nel quartiere di Khwta. Noi ci siamo poi spostati nella città di Adena Fassit, dove siamo rimasti per tre mesi prima di andare ad Assab, dove viveva un mio cugino. Qui studiavo e lavoravo come gommista nell’officina di mio cugino”. “Mi hanno prelevato a scuola” “In Eritrea il servizio militare è obbligatorio e tutti i ragazzi vengono costretti ad arruolarsi nell’esercito quando compiono 18 anni o al termine della settima classe di scuola. Molti dichiarano un’età falsa, cercando così di evitare l’arruolamento forzato, ma spesso questo non funziona: succede che vengano denunciati dalle persone del loro stesso quartiere. Nel 2005 alcuni militari sono venuti a prelevarmi a scuola e mi hanno portato nel campo di addestramento militare di

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“Alcune volte è una fuga, altre una scelta, sempre contiene una speranza e una promessa. La strada di chi lascia la sua terra”. Una graphic novel che racconta alle nuove generazioni le storie, le persone e le ragioni delle migrazioni.

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by Mauro Biani – Repubblica
maurobiani.it

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