A Ferrara, nell’ambito di Riaperture Photofestival, sarà visitabile, nel mese di maggio, una mostra fotografica di Valerio Muscella e Michele Lapini. La mostra è l’esito di un progetto che esplora il viaggio e le condizioni di vita delle persone migranti bloccate in Bosnia.
Non più, non ancora è il titolo che i due autori hanno dato al loro progetto fotografico. Un progetto che descrive persone sospese tra un passato che li ha costretti a partire (non più) e un futuro che non li vuole accogliere (non ancora). Il titolo e il lavoro richiama le parole del sociologo algerino Abdelmalek Sayad, il quale definisce la condizione dei migranti in transito “la doppia assenza”.
La mostra si inserisce in modo naturale in una rassegna che quest’anno ha come tema “Il viaggio” ed è promossa dal CIDAS, una Cooperativa Sociale di tipo A e B che opera nell’ambito dei servizi alla persona e che fra le varie attività annovera l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati. CIDAS nell’ambito di Riaperture ha anche organizzato un incontro in cui è stato raccontato come la Cooperativa si prende cura dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale.
Per tre week end, il pubblico potrà scegliere di viaggiare fisicamente tra non-luoghi di Ferrara e immergersi in diverse realtà, attraverso il canale visivo della fotografia. La mostra Non più, non ancora sarà visibile con il biglietto unico di ingresso, acquistabile in prevendita anche online sul sito di Riaperture.
Gli autori saranno presenti a Ferrara nei weekend del festival e saranno organizzate visite guidate per spiegare direttamente con la loro voce le proprie opere.
Dal sito di Riaperture una scheda per comprendere: Non più, non ancoraNon più, non ancora è un progetto che esplora le condizioni di vita delle persone migranti bloccate in Bosnia, alle porte della Fortezza Europa, sospesi tra un passato che li ha costretti a partire e un futuro che non li vuole accogliere, in quella che il sociologo algerino Abdelmalek Sayad definisce la doppia assenza. Il loro viaggio può durare anni e qui, al confine con l’Europa, si interrompe a causa dei respingimenti illegali e violenti da parte della polizia di frontiera e delle politiche repressive europee. Nel cantone di Una Sana nel nord del paese, migliaia di persone in fuga da guerre, persecuzioni e povertà, provenienti principalmente dall’Africa sub-Sahariana, dal Medio Oriente e dall’Asia Minore, vivono accampate in insediamenti di fortuna, in tende esposte alle intemperie e al gelo, nei boschi e in edifici abbandonati nelle periferie delle città, lontane dagli sguardi ostili dei cittadini e delle istituzioni locali, in attesa di raggiungere paesi europei come l’Italia, la Francia o la Germania. Sono donne e uomini, anziani, famiglie con bambini e adolescenti soli, alle prese con le conseguenze psicologiche delle migrazioni forzate e della violenza delle frontiere. Molti di loro riferiscono di sentirsi disperati, umiliati, spaventati e senza speranza, in particolar modo coloro che viaggiano da periodi di tempo più lunghi e che sono già stati esposti a esperienze potenzialmente traumatiche, sia nel paese di origine che durante il viaggio. L’intenzione di questo racconto è quella di offrire uno spazio di riflessione e di ascolto, attraverso i volti, le storie, i pensieri e le emozioni delle persone protagoniste di traiettorie di vita tese verso la ricerca della libertà. Le frontiere diventano così i luoghi di un’esistenza presente, in un paesaggio fatto di emarginazione, precarietà abitativa e sogni sospesi. |
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