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Esistono pregiudizi legati alla provenienza delle persone in ambito sanitario? E come si formano, nascono, si diffondono in questi contesti dedicati alla cura? Quando ciò accade il pregiudizio può causare dei danni anche alla salute (non riconoscimento di patologie, ritardo di intervento…)? Sono le domande che stanno alla base di “Fare la differenza – Forme di pregiudizio in ambito sanitario”, la tesi di Aurora Lo Bue, laureatasi in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Torino.

“Il mio lavoro di ricerca – spiega- nasce seguendo l’intuizione di Salvatore Geraci, responsabile dell’Area sanitaria della Caritas, che per primo negli anni ’90 ha descritto la “sindrome di Salgari”. Con questo termine ha indicato il pregiudizio sorto tra medici, politici, ricercatori, scienziati legati all’ambito sanitario nel periodo in cui ci furono i primi arrivi di una certa entità di immigrati sul territorio italiano.

All’epoca nacque un’attenzione particolare, una preoccupazione che diede vita a veri e propri gruppi di lavoro e ricerca, protocolli di intervento per prevenire e curare malattie esotiche o non più diffuse nelle società occidentali che ci si aspettava i migranti avrebbero portato. Ma le persone che arrivavano da Paesi lontani, in realtà, non presentavano quadri clinici di questo tipo e, quando erano malate, lo erano per lo più per patologie legate alla loro condizione di precarietà: traumi sul lavoro, malattie gastrointestinali”.

Tre livelli di pregiudizio

Il lavoro di Aurora Lo Bue prova allora a capire che cosa ne è oggi di forme di pregiudizio simile a questo e se tali forme possano portare a condizionamenti nella vita delle persone che si rivolgono al Servizio sanitario. La tesi analizza questo fenomeni su tre livelli.

Al livello “macro” la ricercatrice analizza i pregiudizi a livello istituzionale e delle leggi con particolare riferimento alle ultime due leggi sull’immigrazione, le cosiddette “Turco – Napolitano” e “Bossi – Fini”. Il livello intermedio analizza i corsi di formazione in ambito sanitario, con particolare attenzione ai messaggi espliciti ed impliciti che vengono lanciati quando il personale sanitario è formato su temi quale l’intercultura, l’approccio ai migranti, la mediazione culturale.

“Nel livello ‘micro’ – racconta Aurora Lo Bue – ho provato a osservare e analizzare in modo diretto i comportamenti, le percezioni, i punti di vista sia degli operatori sanitari che dei migranti e in particolare di richiedenti asilo e rifugiati. Grazie alla disponibilità di alcune direzioni ospedaliere ho potuto osservare direttamente questi comportamenti presso il Pronto Soccorso e attraverso interviste al personale. Ho usato strumenti di indagine  che fanno riferimento al metodo etnografico di ricerca, ispirandomi talvolta alle mappe cognitive,  per provare a fare uscire fuori anche il ‘non detto’, quel portato culturale che inevitabilmente attraversa tutti e che non sempre emerge a livello razionale”.

Per non fare gli struzzi

Da questo lavoro di ricerca sul campo si è reso evidente che un certo livello di pregiudizio è presente anche in ambito sanitario. Ad esempio, nel corso delle interviste, quasi mai il concetto di “persona” si sovrapponeva perfettamente a quello di “immigrato”, mentre nella pratica quotidiana l’utilizzo delle protezioni individuali (guanti, mascherina) era più puntuale e attento, se non addirittura esclusivo, quando l’operatore si trovava di fronte a un paziente da lui giudicato potenzialmente “più pericoloso” come nel caso di persone nere o Rom.

Dalle interviste con richiedenti asilo e rifugiati è invece emerso come per loro il concetto di “salute” sia assai più ampio e comprenda l’idea di benessere e sicurezza tanto che nella maggior parte dei casi l’attenzione era piuttosto concentrata su questioni come casa e lavoro. “Il fatto è – conclude Aurora Lo Bue – che il pregiudizio, forse inevitabilmente, esiste e che non è negandolo o nascondendolo che lo si affronta, quanto piuttosto analizzando come si sia diffuso un certo ‘senso coune’, destrutturandolo, mettendolo alla prova dei fatti. In questo senso, soprattutto in ambito sanitario, la formazione degli operatori è fondamentale, ma che sia una formazione qualificata in grado di riconoscere e affrontare il pregiudizio e non, come purtroppo talvolta accade nonostante le buone intenzioni, che finisca on il confermarlo e diffonderlo”.

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