«I nostri figli hanno tanto da imparare da questi ragazzi, e noi madri avremmo tanto da imparare dalle loro madri. Siamo così protettivi, noi genitori qui in Italia, che rasentiamo il ridicolo». Sabrina e Massimo Quattrocolo vivono a Pessione, frazione di Chieri, alle spalle della Collina torinese, con tre figli. Ma con loro c’è anche B. D., 20 anni, MALIANO, loro affidato nell’ambito del progetto SPRAR di accoglienza in famiglia “Rifugio diffuso” del Comune di Torino…
B. è titolare di protezione umanitaria. Vive con una famiglia che definire contenta di lui è dir poco. Il suo progetto, un progetto di accompagnamento verso l’autonomia, è partito sulla base di sei mesi di accoglienza prorogabili. E al termine del percorso potrebbe vedere un traguardo importante: dopo due tirocini aziendali, l’assunzione in un’officina di Torino.
«Sì, sono contento, è un lavoro che mi piace – racconta B. a casa Quattrocolo, un po’ solare e un po’ pensoso –. Mi sto preparando anche per la patente. E poi, chi lo sa? Certo la vita è complicata, soprattutto se ti ha portato fuori dal tuo Paese. Meglio qui o in Mali? Sinceramente non ti so dire: sai, quando sono partito avevo 10 anni. Vivere da soli senza la tua famiglia non è il massimo: i miei li sento ogni due, tre mesi. L’Italia però mi ha accolto bene, mi ha dato i documenti che servono per lavorare e per trovare casa».
B., famiglia di Bamako, la capitale, è arrivato a Lampedusa nel 2014, poco più di due anni fa. E, almeno lui, può raccontare di un percorso d’accoglienza dignitoso. Da Lampedusa a Milano, da Milano a Bergamo e, dopo qualche mese, a Torino, dove è stato un anno alla fraternità del SERMIG, «che per me è rimasto un po’ come una seconda casa». Due anni di formazione: italiano e ancora italiano, il diploma di terza media in un solo anno, un corso professionale alberghiero e uno di operatore meccanico. Prima dell’inserimento in famiglia ha vissuto con altri due maliani in un appartamento seguito da operatori. Musulmano, va in moschea a Torino, dove insegna ai bambini l’arabo.
L’arabo? «Sì, l’ho studiato in Libia… Ti dicevo che sono partito dal Mali a 10 anni. È stato perché i miei mi hanno mandato a studiare là, stavo da amici di mio padre. In tutto quel periodo sono ritornato a casa una volta sola. E la Libia allora era il Paese più ricco dell’Africa… Ma poi è arrivata la guerra contro Gheddafi, e armi dappertutto, anche in mano ai ragazzini, e l’intervento dell’America, della Francia. Mia madre mi telefona: “Devi tornare in Mali”. Però via terra, con un “taxi” o in pullman, non si poteva più, e nemmeno in aereo».
Nel maggio del 2014 B., in un imbarco clandestino vicino a Tripoli, decide di salire a bordo di un barcone con altre centinaia di profughi. Ha pagato l’equivalente di 300-400 euro, è sicuro che i trafficanti lo porteranno in Costa d’Avorio, Paese costiero confinante con il Mali. Dopo cinque giorni di fame e paura nel Canale di Sicilia sarà soccorso da una nave italiana.
«In Libia prima della guerra si stava bene, mi sarebbe piaciuto restare là, magari a insegnare l’arabo. Le lingue mi piacciono: oltre al francese che da noi è la lingua nazionale conosco anche il nostro bambara, il nostro koroboro… Adesso inizierò a studiare l’inglese. Ma il “grosso” dello studio mi sa che è finito, perché studiare e insieme lavorare non sarà facile…».
È a questo punto che nel soggiorno di casa Quattrocolo arriva quel commento di Sabrina, «ci sarebbe tanto da imparare da questi ragazzi». E il contro-commento di B.: «Certo che per crescere devi poter girare un po’: è un po’ come studiare. E un po’ come un… furgone: devi metterci dentro tante di quelle cose…».
“Rifugio diffuso” è nato nel 2008 come progetto pilota promosso dalla Città di Torino in collaborazione con vari organismi e associazioni e, fino al 2014, ha sostenuto con ottimi risultati 143 fra richiedenti asilo e rifugiati in 122 famiglie. Dal 2015 è un progetto di “terza accoglienza” della rete SPRAR con 28 posti (per ogni persona accolta prevede, per la famiglia, un contributo di rimborso spese di 413 euro al mese).
«Noi avevamo dato la nostra disponibilità nel 2015, dopo aver saputo che c’era bisogno di famiglie aperte a questo tipo di accoglienza – testimonia Sabrina, di professione insegnante –, e una brava operatrice della Pastorale Migranti di Torino (uno degli “enti attuatori” del progetto, ndr) che poi ha continuato a darci il suo appoggio ci ha prospettato varie possibilità: una mamma con bambini, o un ragazzo under 18, oppure un giovane sui 20 anni, che poi è stato il “nostro” B.».
Testimonianza raccolta dalla redazione di Vie di fuga, 2016 e 2017
1 commento
Con 5 milioni e passa di persone in attesa di lavoro in Italia noi pensiamo a dare lavoro ai maliani, è proprio assurdo