Dopo tre missioni e indagini sul campo, il Tavolo asilo e immigrazione dimostra l’illegittimità dei centri italiani in Albania. Oggi l’hotspot di Shëngjin e il centro di Gjader sono vuoti. Ma anche la normativa europea che entrerà in vigore nel giugno 2026 non legittimerà l’esternalizzazione delle procedure d’esame della protezione internazionale su suolo extra-UE.


«Quello che stiamo sperimentando in Albania potrebbe non essere un’eccezione, ma un’anticipazione di scenari futuri più ampi. La riforma del Patto europeo sulle migrazioni e l’asilo, che entrerà pienamente in vigore nel giugno 2026, prevede l’introduzione di forme di trattenimento sistematico in frontiera e procedure accelerate per l’esame delle domande di protezione internazionale. Questo segna un’evoluzione preoccupante delle politiche migratorie europee, spingendo sempre più verso una gestione securitaria e restrittiva della mobilità. Tuttavia, non può non notarsi che il Patto europeo non legittima affatto l’esternalizzazione, su suolo extraeuropeo, delle procedure di esame della protezione internazionale e, dunque, il cosiddetto “modello Albania” è destinato a esaurire la sua portata propagandistica, perché fuori dall’Unione Europea non possono essere garantiti efficacemente e concretamente i diritti (ancora) previsti dal diritto europeo, oltre che da quello nazionale».
Guarda avanti, il rapporto Oltre la frontiera del TAI (Tavolo asilo e immigrazione) pubblicato in questi giorni sull’attuazione dell’accordo Italia-Albania. Per alcuni, esso rimane un modello «innovativo» e replicabile altrove. Il TAI però, la vasta coalizione italiana di associazioni e organismi impegnati nella difesa dei diritti dei migranti, ne ha dimostrato l’illegittimità dopo tre missioni in Albania, la raccolta di testimonianze dirette e ricerche sul campo realizzate con la collaborazione di parlamentari di diversi gruppi politici.
“Rendere visibile ciò che accade”
«I centri in Albania sono illegittimi e sbagliati sul piano etico, giuridico ed economico», si afferma nel rapporto, perché «le violazioni riscontrate sono numerose e sistematiche». La valutazione delle vulnerabilità messa in piedi dalle autorità italiane è inadeguata. L’applicazione generalizzata delle procedure accelerate in frontiera «comporta una torsione inaccettabile del diritto d’asilo e un indebolimento delle garanzie per i richiedenti protezione». Il trattenimento prolungato fin dalla “selezione” in mare si svolge senza provvedimenti formali e con tempi indefiniti. Mentre il diritto alla difesa non trova condizioni adeguate «a causa dell’isolamento, della difficoltà di accesso a un’assistenza legale effettiva e della rapidità delle procedure».
Oggi l’hotspot di Shëngjin e il centro di Gjader sono vuoti. Ma in attesa di un pronunciamento della Corte di Giustizia Europea sulla gestione dei cosiddetti “Paesi sicuri” e in vista della scadenza del giugno 2026, avverte il TAI, è fondamentale «rafforzare il monitoraggio indipendente, con un duplice obiettivo: rompere l’isolamento delle persone migranti e rendere visibile ciò che accade nei centri di detenzione. È questo l’orizzonte verso cui ci muoviamo: le organizzazioni della società civile e le forze politiche che intendono difendere i diritti fondamentali e la tenuta democratica devono farsi trovare pronte a contrastare questo nuovo salto in avanti».
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