Serena Mancini è una volontaria che ha recentemente trascorso un periodo presso un villaggio palestinese, uno di quei luoghi di conflitto più o meno esplicito dai quali spesso in tanti scelgono di scappare per chiedere rifugio e protezione. La sua esperienza invece ci racconta della realtà di quanti restano e provano ostinanatamente a percorrere strade nonviolente per affrontare quotidianamente una realtà davvero difficile.
Innumerevoli volte in passato avevo pensato di partire come volontaria, ma le circostanze universitarie e lavorative da una parte, e il coraggio che vacillava dall’altra non mi avevano permesso di farlo. Il desiderio e la motivazione però sono cresciuti col tempo fino a quando non ho deciso di partire con il Corpo Nonviolento di Pace Operazione Colomba, destinazione il villaggio palestinese di At-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron, in Cisgiordania.
Il paesino, situato su alture aride e polverose, si trova in Area C, sotto controllo civile e militare israeliano; a poche centinaia di metri si trovano una colonia israeliana e un avamposto abitato da coloni israeliani nazional religiosi particolarmente violenti. Tali insediamenti sono in continua espansione, ma bisogna sottolineare che l’avamposto è anche non autorizzato e illegale per le stesse autorità israeliane. La vita per gli abitanti della zona consiste in una lotta senza tregua. I coloni israeliani, infatti, vogliono entrare in possesso dell’intero territorio, che ritengono assegnato loro direttamente da Dio e quindi espellere i Palestinesi, che a loro volta rivendicano con ostinazione il diritto a esistere e a non abbandonare i villaggi e le loro abitazioni. La situazione è resa ancora più tesa dall’onnipresenza dei militari israeliani che presidiano il posto, che spesso non si astengono da una collaborazione stretta e neanche troppo dissimulata coi connazionali che stanno all’interno degli insediamenti.
Ad At-Tuwani tutto questo si traduce in continui attacchi da parte dei coloni: aggressioni verbali e fisiche, intimidazioni, distruzione del raccolto, danneggiamento di ulivi, tentativi di allontanamento dei pastori e dei raccoglitori dai campi, uccisione di animali, blocco del passaggio su determinate strade per limitare al minimo la mobilità dei Palestinesi… pressoché ogni modo è lecito per rendere la loro vita insopportabile. Non mancano così reazioni di esasperazione che spesso diventano pretesti di ulteriore offesa. Sembra di entrare in una spirale senza fine, senza soluzione, dove odio alimenta odio. Gran parte degli edifici di At-Tuwani, come molti di quelli nei villaggi palestinesi circostanti, è inoltre soggetta a ordini di demolizione consegnati dalle autorità israeliane, e corrono in ogni momento il rischio di essere abbattuti.
La presenza nel villaggio del Corpo Nonviolento di Pace Operazione Colomba è il risultato della richiesta, da parte del Comitato di Resistenza Popolare delle South Hebron Hills, di una presenza internazionale sul posto. I volontari condividono la vita con le vittime del conflitto e si mettono a disposizione, armati esclusivamente del loro passaporto e della telecamera, per accompagnarle nelle loro attività quotidiane per le quali essere affiancati da una presenza internazionale può funzionare come deterrente contro l’uso della violenza.
Nel periodo di aprile e maggio in cui sono stata ad At-Tuwani, momento ideale per il pascolo, ci occupavamo principalmente degli accompagnamenti a pastori e raccoglitori palestinesi in zone poco sicure a ridosso degli insediamenti, dove frequentemente subiscono degli attacchi; organizzavamo e partecipavamo ad azioni nonviolente; presenziavamo ai checkpoints; intervenivamo fotografando la consegna degli ordini di demolizione e l’espansione degli insediamenti; c’era poi il monitoraggio della scorta militare dei bambini del vicino villaggio di Tuba che frequentano la scuola di At-Tuwani, attività che dura tutto il periodo scolastico.
La proposta nonviolenta è il principio che motiva la presenza di Operazione Colomba sul posto, e, personalmente, anche quello che ha avuto su di me maggior presa. Quando mi trovavo lì un cartellone giallo sulla nonviolenza, attaccato su una parete dell’abitazione dove stavo con gli altri volontari, attirava spesso la mia attenzione, al centro stava scritto: “Could this be the way?”. Quelle parole hanno suscitato in me molte domande e riflessioni. Gli abitanti di At-Tuwani hanno compiuto questa scelta spinti da una sete di pace da soddisfare tramite il dialogo e il reciproco riconoscimento; hanno deciso di opporsi all’occupazione in un modo pacifico, che va dai cortei per ribadire i diritti sulla terra, alle campagne per la ricostruzione degli edifici abbattuti, o semplicemente all’ostinazione nell’uso dei campi e delle strade maggiormente esposti agli attacchi, ma che se fossero abbandonati finirebbero sotto controllo dei coloni.
Nonostante la maggior parte di loro abbia subito arresti e pestaggi, nonostante molti di loro si siano visti distruggere le case e portar via le terre, gli abitanti di At-Tuwani hanno optato per una resistenza che supera il rancore e l’odio per le umiliazioni subite. Tutto ciò non senza difficoltà e regressioni, poiché, come là mi dicevano spesso i miei compagni con più esperienza, “la nonviolenza è un percorso, fatto di passi avanti ma anche di passi indietro”.
La possibilità che ho avuto di stare per un breve periodo accanto agli abitanti di questo villaggio non ha potuto che suscitare in me l’ammirazione per la dignità che mostrano in un cammino tanto coraggioso. In un solo mese e mezzo ho provato che cosa vuol dire vivere con una forte limitazione di movimento, con addosso l’ansia di guardarsi continuamente alle spalle; che cosa significa provare timore per una macchina che in lontananza si avvicina; e che cosa vuol dire essere fisicamente attaccati dai coloni e avere paura. Quello che io ho provato non è che una piccola porzione rispetto a ciò che molti Palestinesi subiscono da una vita intera, eppure gli abitanti di At-Tuwani hanno anche avuto il merito di mostrarmi che forse una soluzione c’è, e che se la scelta nonviolenta di questo villaggio venisse coltivata e diffusa forse un piccolo varco per il dialogo e il confronto potrebbe essere aperto. Ripensando al cartellone giallo, io credo che At-Tuwani abbia trovato la risposta.
Serena Mancini
No comment yet, add your voice below!