“Mi chiamo G., sono nato ad Addis Abeba, in ETIOPIA, nei PRIMI ANNI ‘80. Mio padre è eritreo, mia madre etiope e io ho entrambe le cittadinanze dalla nascita. Sono rifugiato politico, lo status mi è stato riconosciuto da una Commissione territoriale italiana. Io però non ho potuto fermarmi in Italia perché mancava non solo il lavoro, ma anche qualsiasi possibilità di futuro. Ora vivo a Malta e faccio il lavapiatti in un ristorante…”.
“Ho vissuto in Etiopia fino al 1997, anno in cui il conflitto fra Etiopia ed Eritrea si è riacutizzato. Io e la mia famiglia, essendo per metà eritrei, siamo stati cacciati dal Paese e tutti i nostri beni sono stati espropriati. La polizia etiope ci ha prelevato di notte dalla nostra casa e deportato in Eritrea, ad Asmara, nel quartiere di Khwta. Noi ci siamo poi spostati nella città di Adena Fassit, dove siamo rimasti per tre mesi prima di andare ad Assab, dove viveva un mio cugino. Qui studiavo e lavoravo come gommista nell’officina di mio cugino”.
“Mi hanno prelevato a scuola”
“In Eritrea il servizio militare è obbligatorio e tutti i ragazzi vengono costretti ad arruolarsi nell’esercito quando compiono 18 anni o al termine della settima classe di scuola. Molti dichiarano un’età falsa, cercando così di evitare l’arruolamento forzato, ma spesso questo non funziona: succede che vengano denunciati dalle persone del loro stesso quartiere. Nel 2005 alcuni militari sono venuti a prelevarmi a scuola e mi hanno portato nel campo di addestramento militare di Sawa”.
“Lì l’addestramento e le condizioni di vita erano molto dure. Ci svegliavano la mattina all’alba e ci obbligavano a marciare tutto il giorno. Il cibo era scarso e di pessima qualità e le punizioni corporali erano frequenti e dure. Poiché avevo origini etiopi, e soprattutto in quel periodo l’Etiopia rappresentava il nemico, il trattamento che mi riservavano era ancora peggiore: non mi lasciavano mai riposare e mi picchiavano più spesso degli altri. Dopo circa due mesi passati al campo sono riuscito a scappare confondendomi tra le reclute che avevano terminato il periodo di addestramento e stavano partendo per il fronte”.
“Sono andato a Porto Sawa e poi ad Adena Fassit, a circa 25 chilometri da Asmara, dove sono rimasto nascosto per due mesi e mezzo. Lì vivono molti Etiopi deportati che si aiutano a vicenda, e io sono riuscito a mantenermi grazie a dei soldi che la mia famiglia mi inviava. Anche lì però ero in pericolo, dato che ero considerato un disertore dall’esercito eritreo e in Eritrea i disertori vengono fucilati. La mia famiglia, inoltre, mi aveva informato che l’esercito aveva fatto dei rastrellamenti nel quartiere di Assab, in cui vivevano, per cercarmi”.
Dall’Etiopia al Sudan
“Così sono scappato in Etiopia, ad Addis Abeba, dove sono rimasto per otto mesi. Sul confine fra Eritrea ed Etiopia i militari che controllavano la frontiera mi hanno intercettato e mi hanno mandato in un campo profughi vicino al confine, dove sono rimasto per due giorni. Da lì sono poi fuggito, insieme ad altri due disertori eritrei, passando attraverso foreste e strade secondarie. Anche ad Addis Abeba dovevo vivere nascosto, per evitare di essere nuovamente deportato in Eritrea. Ero quindi ospite presso amici e conoscenti, cambiavo spesso casa e appena ho potuto ho lasciato il Paese”.
“Sono andato a Bahri, un quartiere di Khartum, in Sudan, dove sono rimasto per un anno facendo lavori saltuari. Lì l’UNHCR mi ha rilasciato un documento che attestava il mio status di rifugiato, ma non c’era nessuna garanzia reale di protezione. Diversi Eritrei che conoscevo, per la maggior parte disertori, sono infatti stati rimandati in Eritrea, dove sono poi state fucilati o sono morti in carcere. Anche a Bahri, infatti, c’erano frequenti rastrellamenti da parte delle autorità eritree che cercavano i disertori”.
In Italia l’asilo, a Malta un lavoro
“Nei primi mesi del 2009 sono quindi partito per la Libia. Ho pagato 450 dollari a dei trafficanti sudanesi che mi hanno portato, insieme ad altre 175 persone, fino al confine con la Libia. Abbiamo viaggiato per 25 giorni attraverso il deserto a bordo di camion scoperti. In Libia ho vissuto a Tripoli, dove cercavo di stare nascosto ed uscire il meno possibile, dato che non avevo un permesso di soggiorno”.
“A giugno 2011 è scoppiata la guerra in Libia e la situazione era sempre più pericolosa, per cui ho deciso d’imbarcarmi e sono arrivato a Lampedusa. Dall’isola sono stato trasferito a Torino, qui ho fatto domanda di asilo e sono stato riconosciuto rifugiato politico nel 2012. Purtroppo in Italia non solo non riuscivo a trovare un lavoro, ma avevo serie difficoltà a trovare un posto dove vivere, e per questo dopo un lungo periodo di attesa per avere i documenti ho deciso di seguire il consiglio di un amico di infanzia, che mi aveva chiamato invitandomi a raggiungerlo a Malta perché c’era la possibilità di avere un lavoro. Così ho fatto, ho trovato un lavoro e un alloggio. E ora vivo nell’isola da cui molti altri migranti vogliono partire per raggiungere l’Italia!”.
Testimonianza raccolta dalla redazione di Vie di fuga, 2015
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