Sono trascorsi cinque anni da quando è stato siglato l’accordo fra l’UE e la Turchia per contenere il flusso di migranti provenienti dalla Siria (ma non solo). Oggi in Turchia risiedono oltre 3.6 milioni di siriani e quasi nessuno si trova nei campi profughi.
La cifra, già di impatto, di 3.6 milioni di siriani, è superata dalla realtà dei fatti che attesta il numero effettivo intorno ai 4 milioni. Solo l’1.6% abita nei campi profughi mentre il restante si è stabilizzato nei centri urbani turchi, principalmente Istanbul ma anche Ankara, Izmir e altre città.
I siriani godono di una protezione temporanea per restare in Turchia. Tale protezione però non si sta dimostrando più sufficiente visto che la permanenza dei siriani si sta protraendo nel tempo. Proprio per la tipologia di protezione concessa i siriani vivono in condizioni di marginalità, di impossibilità di accesso al mercato del lavoro e di precarietà abitativa.
Quella che inizialmente è apparsa come una soluzione di respiro – in fuga da una guerra la possibilità di trovare accoglienza in un paese confinante – sta costituendo ora un limite gravoso caratterizzato da numerose restrizioni. Ad esempio i siriani non possono lasciare il luogo di residenza accertata e non hanno pieno accesso al mercato del lavoro. Come per molti altri immigrati in Turchia l’unica soluzione è l’illegalità, in primis il ricorso al mercato nero. Sono stati denunciati anche molti casi di bambini costretti a lavorare, soprattutto casi di bambini costretti a chiedere l’elemosina nelle strade delle grandi città.
La situazione attuale dei rifugiati siriani in Turchia è molto complessa, perché il Paese sta attraversando una crisi economica e sociale gravissima, aggravata ulteriormente dalla pandemia; contemporaneamente si sta diffondendo una sentimento xenofobo e razzista fra la popolazione che mina la possibilità stessa di integrare gli stranieri, siriani o provenienti da altre zone del mondo.
In definitiva il sistema creato grazie all’accordo UE-Turchia non aiuta a stemperare un clima di violenza nei confronti dei migranti perché non permette l’emancipazione da meccanismi di controllo e di contenimento volti a reprimere più che ad accogliere.
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