FARHAD BITANI, afghano, per certi aspetti è un rifugiato “d’altri tempi”: circostanze di vita particolari, una famiglia d’origine di ceto elevato con relazioni internazionali. Però è anche un rifugiato la cui vita da esule ha preso una direzione inedita: dopo aver raccontato la sua storia in un libro, ha iniziato a portare una testimonianza di pace e di dialogo interculturale nelle scuole, in teatri e circoli di varie città italiane. Senza perdere di vista, peraltro, la difficile situazione dell’AFGHANISTAN.
29 anni, ex capitano dell’esercito afghano, ultimo di sei figli, Farhad Bitani è nato nella famiglia di un alto ufficiale mujaheddin . È cresciuto in un mondo di guerra e violenza. Da bambino ha visto la guerra da vincitore, perché suo padre è uno dei generali che hanno scacciato l’Armata rossa, e più tardi l’ha vista da perseguitato ed esule, perché suo padre era nemico dei talebani che nella seconda metà degli anni ’90 si erano impadroniti di quasi tutto il Paese. Poi ha vissuto la guerra da militare, come giovane ufficiale, negli anni della missione ISAF della NATO contro i taleban.
Ha studiato anche in Italia, all’Accademia militare di Modena, e alla Scuola di Applicazione di Torino (il padre, fra l’altro, è stato addetto militare all’ambasciata di Kabul a Roma). Fino a che di nuovo in patria, nel 2011, dopo essere stato ferito alla spalla in un agguato vicino a Jalalabad, al culmine di una crisi interiore ha lasciato le forze armate e ha chiesto protezione nel nostro Paese.
Oggi vive a Torino come rifugiato, lavora per la Questura come mediatore culturale. Per certi aspetti è un rifugiato “d’altri tempi”, se si mette a confronto la sua vicenda con quella di decine di migliaia di richiedenti asilo in Italia: circostanze particolari, una famiglia d’origine di ceto elevato con relazioni internazionali. «Ho avuto la fortuna di avere lo status in breve tempo – confida Farhad – anche perché la mia famiglia è conosciuta e la mia vicenda era già nota».
Però è anche un rifugiato la cui vita da esule ha preso una direzione inedita. Dopo aver raccontato la sua storia nel libro L’ultimo lenzuolo bianco, uscito per i tipi dell’editrice Guaraldi (2014), Farhad Bitani ha iniziato a portare una testimonianza di pace e di dialogo interculturale nelle scuole, in teatri e circoli di varie città italiane. Oggi siamo a sei, sette, otto, nove incontri a settimana, che si sono moltiplicati grazie a un imprevisto passaparola.
«L’educazione è importantissima…», dice Farhad a Vie di fuga. Quasi una “banalità”, se non fosse per l’autobiografia condensata in questa affermazione. Continua infatti lo stesso Farhad: «…perché io sono cambiato grazie all’incontro con l’altro, grazie ad alcuni gesti e a un’educazione che nell’adolescenza mi erano mancati. Vedi, io sono rimasto musulmano. Però ho scoperto il vero islam attraverso il dialogo con i cristiani. Mi chiedono: perché gli altri musulmani non la pensano così? Forse anche perché voi cristiani dovete dargli l’occasione di entrare davvero in dialogo con voi. La mia storia lo dimostra: sono cresciuto in un Paese violento, per una vita ho visto violenze e respirato odio contro di voi, il cristianesimo, l’occidente. Non potevo cambiare con l’odio, con la forza, sono cambiato quando qualcun altro, nella vostra Italia, ha condiviso la sua identità con me, con piccoli gesti».
Farhad Bitani desidera tornare in patria, un giorno, «per raccontare alla mia gente il cambiamento che ho vissuto, per dire che non esiste la parola infedele ma solo l’ignoranza, la non conoscenza, i muri che ci dividono».
Però sull’Afghanistan attuale ha un giudizio (quasi) senza appello: «La situazione purtroppo peggiora di giorno in giorno – afferma -. Abbiamo conquistato l’Afghanistan ma non abbiamo portato la democrazia. Abbiamo rimosso i taleban e messo al potere i mujaheddin, cioè abbiamo rimosso una violenza per metterne (e finanziarne) un’altra. In questo momento abbiamo una persona che si impegna, il presidente Ashraf Ghani, ma che non ha potere: i ministeri sono dei mujaheddin, il potere economico è dei mujaheddin. Rimaniamo un Paese di importanza strategica in balia delle influenze esterne. I problemi etnici continuano a essere trascurati, con tanti gruppi, pashtun, hazara, tagiki, uzbeki nemici fra loro».
«In questi anni le cose non sono migliorate perché gli interessi strategici dell’Occidente hanno messo in secondo piano gli interessi di cittadini e popolo – analizza ancora Farhad -. In Afghanistan sono arrivati 110 miliardi di dollari di aiuti in 13 anni, una montagna di soldi che ha arricchito i fondamentalisti. Mentre continuano gli attentati, la disoccupazione dilaga e l’emigrazione aumenta».
«110 miliardi»: possibile? Sì, possibile, anzi vero. Il dato è uno di quelli che qui in Europa passano inosservati, ma non poteva sfuggire a un esule vigile e attento, per quanto interessato soprattutto al dialogo interreligioso e all’educazione. È quanto gli Stati Uniti, per avere l’Afghanistan di oggi, hanno riversato nel Paese in «aiuti» e «ricostruzione» fra 2002 e 2015, compresa la formazione delle Forze di sicurezza nazionali: per la precisione, 113 miliardi di dollari.
Testimonianza raccolta dalla redazione di Vie di fuga. Si ringraziano per il primo contatto Paola Felizia e l’Ispettoria salesiana Piemonte-Valle d’Aosta. Un servizio sulla testimonianza educativa di Farhad è pubblicato sul numero di settembre 2016 della rivista l'”Ora di religione”.
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