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Il Mali da quasi un anno vive una situazione di instabilità interna, sviluppatasi, nel nord del Paese, a seguito di un colpo di stato (marzo 2012) e di una successiva offensiva dei gruppi tuareg e islamisti nel dicembre 2012, arrivati a minacciare la capitale Bamako. Il 10 gennaio 2013 il presidente francese François Hollande ha dato il via all’Opération Serval, un’operazione di aiuto militare e logistico alle forze del governo maliano.

Ragazzi che giocano sul tetto dello stadio di calcio a Gao, nel nord del Mali. (Joe Penney, Reuters/Contrasto)

Caos nel Sahara

All’inizio del 2010, nell’Azawad (il territorio a nord di Timbuctu), nasce un movimento per l’autodeterminazione (quindi non secessionista) denominato Mouvement pour la libération nationale de l’Azawad (MNLA). All’inizio il MNLA consolida le sue posizioni ideologiche e di proselitismo al nord. Poi, nel gennaio 2012 consegue una serie di vittorie iniziali contro un esercito maliano demoralizzato, tanto che il 6 aprile proclama un “indipendente Azawad”, con la creazione di un “Conseil transitoir de l’Etat de l’Azawad” (Consiglio di transizione di Stato di Azawad – CTEA). Sulla scena, però, compaiono come co-attori e protagonisti anche il movimento radicale islamico Ansar Dine, il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (il Movimento per l’Unità e la Jihad in Africa occidentale – MUJAO) e Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), che rapidamente si affermano a Timbuctu, Gao e Kidal. Ciò genera timori confusione e paura nei maliani e negli stati confinanti.

Secondo la sua versione dei fatti, la MNLA assume la decisione di rimuovere se stessa dal nord del Paese, di fronte alle provocazioni ripetute degli jihadisti, per evitare vittime civili. La situazione non è molto chiara tanto che in un’intervista con alcune agenzie di stampa internazionali, a fine luglio 2012, il portavoce del Movimento, Mossa Ag Attaher, ha denunciato la presenza al nord del paese di terroristi (jihadisti) che svolgono anche traffico di droga. La notizia è oramai nota: le agenzie internazionali per lo sviluppo hanno sempre denunciato che il Nord del Mali è un hub per droga, armi e traffico di esseri umani, con gruppi islamici coinvolti a fianco di Tuareg facilitatori. Il portavoce Attaher ha detto che “l’indipendenza del Azawad rimane l’unica base di discussione con il Mali,” pur criticando il Mali stesso come “uno stato in decomposizione”.

 A Ouagadougou nel luglio 2012 – un summit appoggiato dal governo burkinabé, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale e il Dipartimento federale degli affari esteri – avrebbe dovuto delineare un programma politico per il CTEA ed una piattaforma per la negoziazione, ma ne è sortita solo una valanga di dichiarazioni contraddittorie.

Intanto nel Mali, tre mesi prima, il 22 marzo 2012 un gruppo di soldati prende il potere, con un colpo di stato, giustificato dal fatto che vi sono difficoltà nel fronteggiare i ribelli tuareg del nord. La Costituzione democratica è sospesa ed è dichiarato il coprifuoco. Il nuovo governo non riconosce il MNLA ed iniziano una serie di azioni militari. A complicare la situazione, la componente tuareg che non è monolitica – è in parte orientata in senso fondamentalista- aderisce al Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, che poi assume la denominazione di al-Qa’ida nel Maghreb islamico – e prende il controllo del settentrione del Paese, distruggendo tra l’altro numerose reliquie della locale tradizione sufi e le tombe stesse (marabutti) di alcuni “santi” musulmani.

L’incendio di un campo di canna da zucchero a Niono, in Mali. (E. Feferberg, Afp)

Il MNLA invia una lettera al Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, avvertendo che “senza l’implicazione aperta e diretta della MNLA in tutto ciò che riguarda la crisi, è illusorio sperare in una soluzione definitiva e di una pace duratura “. La lettera accenna al fatto che l’esercito del Mali e le sue milizie lealiste svolgono pogrom contro le comunità tuareg, e sottolinea la disponibilità del MNLA per liberare il nord dai “narco-trafficanti”.

Iniziative diplomatiche sono intraprese anche da Ansar Dine, i cui leader sarebbero stati ad Algeri, per incontrare un rappresentante del governo del Mali. Il leader di Ansar Dine, Iyad ag Ghali, è stato una figura chiave nelle rivolte tuareg degli anni 1990, e ha avuto un ruolo di primo piano nel MNLA. Secondo alcuni , si è convertito al salafismo radicale (una forma fondamentalista di Islam) durante il suo tempo trascorso come diplomatico in Arabia Saudita.
Ag Ghali è attivo nel Nord del paese e notevole è il suo impegno per l’imposizione della Sharia. Ag Ghali è una figura di grande influenza nei circoli tuareg, in particolare intorno alla cittadina di Kidal e ha collegamenti di lunga data con le élite militari, politiche e religiose del Paese. “Questa non è una persona che vuole essere considerata come terrorista” asserisce un diplomatico a Bamako, di provenienza europea, che ha preferito l’anonimato e ha sottolineato. “Si tratta di una persona che apprezza la sua reputazione in Mali, in particolare il suo status all’interno della comunità Tuareg”. Anche l’Algeria sostiene l’operato di Ag Ghali. Nel paese vi è però tale confusione, tanto che il governo provvisorio richiede un intervento militare dell’ONU.

Il “problema Mali”

L’ONU con un documento del 12 ottobre, accetta l’esistenza del «problema Mali» ma evita di spingere per un intervento militare immediato (caldeggiato invece dalla Francia) dando al Segretario Generale Ban Ki-moon un primo mandato a tempo – 45 giorni – per indagare, capire, elaborare una strategia.
“Intervento militare, ma con i tempi della diplomazia”: sta in queste poche parole il senso della reazione dell’Onu alla conquista, da parte di gruppi jihadisti, del nord del Mali, Paese strategico per l’intero Sahel, ma anche potenzialmente per tutto il Maghreb. Ban Ki-moon sceglie Romano Prodi come inviato delle Nazioni Unite per il Sahel e il suo ruolo a Bamako per una prima presa di contatto con il governo maliano è delicatissima.
L’ONU sposa contemporaneamente due ipotesi: quella dell’opzione militare e quella dell’azione diplomatica, perché fa propria la necessità di «espugnare» il nord ormai islamico, ma la subordina all’opera della diplomazia, e quindi del negoziato. Negoziato con Bamako, per sollecitarne una presa di posizione degna di tale nome; con i tuareg del MNLA, scacciati dagli jihadisti dalle regioni che pure avevano conquistato; con gli islamici (soprattutto con Ansar Dine) che abbiano a cuore, più che l’espansione dell’islam più integralista, le sorti del Paese in cui sono nati e dal quale si sentono emarginati; con la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Eacows) che, auto-investitasi del ruolo di guardiano della democrazia nell’area, sta brillando solo per la lentezza.

Nell’ottica di un colpo al cerchio e un altro alla botte, le Nazioni Unite fanno proprie le istanze del presidente francese, Francois Hollande, che non vede alternativa alle armi, e quelle della vera potenza regionale, l’Algeria che, letto il documento dell’Onu, oggi canta vittoria perché vede un riconoscimento alla bontà dell’opera di tessitura diplomatica che sta portando avanti da settimane per evitare che il nord del Mali esploda, e non solo in senso politico. L’Algeria spinge per una soluzione negoziale, pur avendo tutti i titoli per agire militarmente, in virtù di un esercito armato pesantemente e con dotazioni modernissime, oltre che ad alto addestramento. Ma l’Algeria non vuole avere un nemico alle porte.

Manifestanti a sostegno dell'intervento occidentale in Mali

La situazione cambia radicalmente a inizio gennaio 2013 quando François Hollande dichiara: “Ho deciso che la Francia risponderà alle richieste di aiuto del governo di Bamako. Abbiamo dato il nostro supporto all’esercito del Mali nella sua offensiva “. Le dichiarazioni di Hollande seguono l’appello lanciato il 10 gennaio 2013 dal presidente ad interim, Dioncounda Traoré, e l’occupazione da parte dei miliziani islamisti della città di Konna, nel centro del paese. Nelle precedenti 72 ore i miliziani islamisti erano avanzati verso sud generando il panico tra le popolazioni residenti nelle vicine località di Mopti e Sevare, sede, rispettivamente, di una base militare e di un aeroporto. Lo scontro politico interno in Francia è immediato; la tesi più discussa è quella del leader del Front de Gauche, Jean-Luc Mélenchon, il quale sostiene che le operazioni militari in Mali sono state lanciate perché il Paese “non può permettersi” che l’estrazione dell’uranio per l’approvvigionamento delle centrali nucleari francesi venga messo in pericolo. La Francia, da sempre sostenitrice di una risoluzione armata del conflitto maliano, si è proposta in prima persona utilizzando l’ormai vecchio slogan della “guerra al terrorismo” ma in realtà alla base della scelta vi è la tutela dei propri interessi nella regione, in particolare in Niger, ricco di uranio. In altre parole la Francia non può permettersi che gli altri Paesi della regione (e quindi l’estrazione dell’uranio da cui dipendono le centrali francesi) vengano messi in pericolo.

L’Europa non nega il suo appoggio alla Francia e fra i Paesi sostenitori rientra anche l’Italia. In sede europea, si è discusso del “pronto avvio della missione Eutm – missione europea di addestramento delle forze del Mali” che in tutto riguarderà 250 militari europei (e 24 dovrebbero essere italiani) ma il numero potrebbe raddoppiare fino a 500. Inoltre l’Italia, attraverso il ministro Terzi, conferma la disponibilità (poi venuta meno a causa degli “scontri” pre-elettorali) a fornire supporto logistico alla missione francese.

Per le truppe franco-governative non risulta difficile la risalita verso il nord del Mali: il 28 gennaio 2013 riprendono il pieno controllo della città di Timbuctu, dopo averne liberato l’aeroporto e controllato tutti gli accessi a seguito di un’operazione congiunta iniziata nella notte del 27. La città, patrimonio dell’Unesco, era sotto il controllo dei gruppi qaedisti dal giugno 2012. La velocità della risalita del Paese mette però immediatamente allo scoperto le fragilità dell’intervento: le truppe devono affrontare delle sacche di resistenza e soprattutto attacchi terroristici infatti Gao, città nel nord del Mali, è di nuovo sotto attacco da parte delle milizie islamiche il 9 e il 10 febbraio 2013. L’esercito maliano e quello francese avevano respinto l’avanzata dei ribelli, ma il Movimento per l’unicità e il jihad in Africa Occidentale rivendica domenica 10 febbraio un attentato contro un commissariato. Secondo Foreign Affairs, le milizie si limitano a ritirarsi ancora più a nordest del Paese e con la Francia che progetta di ritirare le sue truppe entro marzo, la situazione rimarrà nelle mani delle truppe africane.

Un risultato potrebbe essere lo spostamento del problema nel vicino Niger. E data la fragilità del governo di Niamey, il rischio è una destabilizzazione del paese.

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