Il premier Netanyahu ha definito una piaga di Stato il fenomeno dei migranti irregolari provenienti dall’Africa e transitanti per il deserto del Sinai. Mentre Israele chiude le maglie legislative sulla migrazione i beduini egiziani torturano e ricattano centinaia di profughi.
Fino a un anno e mezzo fa, non si sapeva niente del Sinai, dell’incubo che questo deserto era diventato. A Jaffa, in Israele vi è una clinica dell’organizzazione nonprofit Physicians for Human Rights-Israel (Phr-I) che verso la fine del 2010 ha incominciato a intuire l’esistenza di un tragedia umana. I medici della clinica si sono infatti trovati a curare e a sentire le storie di decine e decine di persone ferite, torturate violentate e sotto forte shock in arrivo dal deserto egiziano. Dalla raccolta di queste storie la Phr-I con altre ong, tra le quali le italiane Agenzia Habeisha ed EveryOne Group, ha denunciato la situazione nel Sinai, ha fatto i nomi dei criminali coinvolti e specificato i luoghi in cui i clandestini sono tenuti in ostaggio, torturati o usati come schiavi dai trafficanti.
In realtà la denuncia rilasciata alle autorità competenti (sia in Egitto che in Israele) non sta producendo alcun risultato e il traffico di esseri umani rimane impunito producendo guadagni da capogiro. Chi riesce ad arrivare in Israele è a pezzi psicologicamente e fisicamente. Arrivano tutti con il sogno della salvezza ma già dalla prima notte si scontrano con una realtà diversa: si ritrovano a dormire nel Levinsky Park di Tel Aviv. È nel degradato quartiere di Neve Sha’anan, che gli immigrati africani gravitano. Il parco è vicino alla stazione degli autobus dove i migranti vengono spediti dai centri di detenzione con un biglietto di sola andata. Se le condizioni di salute lo permettono, al mattino si radunano sul ciglio della strada, sperando di essere scelti per una giornata di lavoro mal pagato.
Al consolato egiziano di Tel Aviv negano che il Sinai sia fuori controllo. Gli accordi di pace del 1979 con Israele prevedono che rimanga demilitarizzato ma dopo gli attacchi al gasdotto di Al-Arish – che raggiunge anche lo stato ebraico – Israele ha dato il nulla osta a un aumento delle truppe egiziane. I trafficanti beduini, però, sono armati e non si sottomettono al controllo di un Paese che neppure li considera. Nel dicembre 2010 l’Unhcr ha fatto pressione sul governo egiziano perché liberasse circa 250 migranti e profughi detenuti nel Sinai. L’Egitto aveva assicurato che si stava muovendo per localizzare e liberare gli ostaggi ma la situazione descritta oggi da diverse ong racconta un’altra storia: quella di centinaia di africani detenuti in container sepolti nel deserto del Sinai.
Nemmeno da Israele arrivano proposte per sconfiggere questa rete criminale che ha tentacoli che raggiungono Tel Aviv. L’ufficio stampa del Ministero degli Interni fa sapere che le informazioni ricevute dalle ong sono state passate alla polizia. Nulla di più.
Come ogni paese di frontiera nelle rotte globali della migrazione, Israele fatica a far fronte alla situazione e risponde con una chiusura. All’inizio del 2012, il Paese ha approvato una legge che inasprisce le misure contro i migranti irregolari. Per evitare infiltrazioni – come si legge nel testo – la nuova normativa consente la detenzione fino a tre anni, senza processo, di chi attraversa il confine privo permesso, senza distinzione neanche per i minori. Non solo perché chiunque aiuti i migranti, anche se operatore socio-umanitario, può essere condannato fino a 15 anni di carcere. Lo scopo della legge è impedire che i migranti, rifugiati compresi, entrino nel Paese, ignorando la Convenzione di Ginevra e le leggi internazionali firmate anche da Israele. Il governo, a dicembre 2011, ha varato un piano da 167 milioni di dollari per arrestare il flusso dei migranti, che prevede, oltre all’estensione della durata della detenzione, anche la realizzazione di un muro lungo i 240 km che dividono l’Egitto da Israele, multe per i datori di lavoro che assumono in nero gli irregolari e l’elaborazione di una strategia per il rimpatrio dei migranti.
Erano stati proprio gli accordi Libia- Italia del 2009 (rinnovati recentemente dal governo Monti) a innalzare, a suo tempo, un invisibile muro sulle coste libiche e a contribuire all’impennata migratoria verso Israele. Tra il 2010 e il 2011 dal Sinai sono entrati circa 28mila illegali, più del doppio di quanti ne erano entrati tra il 2005 e il 2009. Si parla di cristiani e musulmani, che qui minacciano non solo l’economia, ma anche il carattere ebraico dello stato. Mentre il nord del mondo s’illude che, chiudendo le proprie frontiere, possa risolvere un problema globale e mentre Netanyahu si prepara a visitare l’Africa per discutere il rimpatrio di sudanesi ed eritrei, gli unici a non perdere di vista il contesto e l’origine della loro situazione sono gli immigrati stessi.
Gli eritrei in Israele rappresentano il 61% dei profughi. Raggruppati in varie organizzazioni e associazioni, si adoperano sia a sensibilizzare la società israeliana alle difficoltà degli immigrati, sia a ottenere sostegno dalla comunità internazionale per far cadere la dittatura di Isaias Afwerki, che da 18 anni tiene le loro vite sotto completo controllo.
Un altro grave problema che si innesca è che alcuni migranti per ottenere la libertà sono stati venduti e rivenduti per 35-40mila dollari ai beduini del Sinai e ora si trovano sulle spalle il peso di dover ripagare il debito alle loro famiglie. Ma in Israele non c’è lavoro e non c’è integrazione. Anzi lo Stato ebraico vuole letteralmente disfarsi dei migranti presenti sul territorio. Secondo il quotidiano economico israeliano Calcalist sarebbe disposto a partecipare alla costruzione di un campo di accoglienza in Sud Sudan, “grande come una città”, dove spedire i quasi 40.000 migranti irregolari entrati negli ultimi 6 anni.
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