Kigoma, in Tanzania, è una cittadina di confine, adagiata sulle acque del lago Tanganyika, a poca distanza dal confine burundese e dalle sponde del Congo Kinshasa. Dagli anni ’70 del 1900 ha cominciato ad accogliere ondate di profughi provenienti dai Paesi confinanti. Oggi nell’area intorno a Kigoma esistono due campi profughi: Mtabila e Nyarugusu.
Nella cittadina di Kigoma è aperto un transit centre che si occupa della primissima accoglienza e del successivo smistamento delle persone nei campi. Quasi tutti arrivano via lago, grazie a una motonave, la vecchia MV Mwonogozo che ogni due settimane fa la spola fra il Burundi e la Tanzania. Una motonave che l’UNHCR ha anche utilizzato alcuni anni fa per favorire il rientro dei rifugiati congolesi.
Il campo di Mtabila è destinato ai burundesi mentre quello di Nyarugusu ai congolesi. Quasi tutti finiscono nei campi. A Kigoma resta solo chi ha sufficiente denaro per autosostenersi. Come un gruppo di famiglie che ha deciso di fermarsi il più vicino possibile al confine e sta vivendo in una manciata di stanze in un piccolo hotel. Non si vogliono allontanare dalla loro terra pensando che sarà breve il tempo dell’attesa e che presto potranno fare ritorno a casa. Vengono dal Burundi e dal Congo, si parlano in francese e hanno allestito nel giardino dell’hotel una lavanderia, una cucina e un asilo dove i maestri sono i bambini più grandi.
George B. spiega a chi passa per l’hotel la sua storia e la storia del suo paese che non conosce pace. E’ scappato dalla Repubblica Democratica del Congo a causa della sua militanza politica a dicembre 2011, quando i militari hanno iniziato a bloccare le strade e ad arrestare chiunque denunciasse frodi e imbrogli. George è sceso in piazza e poi ha visto sparire alcuni compagni di militanza e ha avuto paura per sé, per sua moglie, per sua figlia e conoscendo bene il destino che tocca a chi prova a tenere la testa dritta nel suo paese ha deciso di varcare il confine e di aspettare un cambiamento, magari portatore di sicurezza.
George B. parla ogni giorno del Congo, a sua figlia che gli si arrampica su per le gambe, al padrone dell’hotel che capisce solo lo swahili, ai componenti degli altri nuclei familiari che vivono come lui nell’hotel dell’attesa. Non vuole andare nel campo di Nyarugusu perché non si considera un rifugiato e perché vuole rimanere vicino al lago Tanganyka e vedere le sponde del Congo.
Secondo i dati dell’UNHCR per il 2011, in Tanzania, ci sono 61.900 rifugiati congolesi e 67.500 rifugiati burundesi. Solo 160 persone nel corso dell’anno scorso hanno fatto domanda di rimpatrio assistito. La situazione del Congo rimane decisamente instabile, nel paese si sono moltiplicate le pubblicazioni di ong indipendenti che denunciano la situazione di violazione sistematica dei diritti umani. Come il report di Amnesty International sul Congo Kinshasa, dall’emblematico titolo: “If you resist, we’ll shot you”. La pace e la stabilità appaiono in questo momento più lontane che mai. Il tempo dell’attesa nel piccolo hotel di Kigoma può dilatarsi di anni e la comunità di George B. potrebbe rimanere a guardare le sponde del paese senza potere farvi ritorno.
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