Fine luglio 2022, 95 mila persone in accoglienza. Fine luglio 2023, quasi 129 mila. Italia Paese che accoglie? Risponde Michele Rossi, direttore di CIAC ONLUS e membro del direttivo della rete Europasilo: «L’Italia accoglie poco e male. Quella che manca nel nostro Paese è un’analisi del bisogno di accoglienza. Quando invece la questione ucraina ci ha dimostrato che accogliere bene fin da subito si può fare. Anche se i rifugiati ucraini hanno portato al sistema di accoglienza una complessità sconosciuta».
Michele Rossi, un anno fa, a fine luglio, i richiedenti asilo, rifugiati e migranti in accoglienza in Italia erano poco più di 95 mila. Tre giorni fa, sempre fine di luglio, siamo arrivati a 128.900 persone. Italia Paese che accoglie?
«No, l’Italia accoglie poco e male. Accoglie senza programmazione, e quindi passa per ondate emergenziali in cui la mancanza di programmazione ereditata da politiche precedenti rende poi necessario ampliare improvvisamente il “sistema”, per dare risposte comunque parziali e incomplete a un bisogno reale. Quella che manca nel nostro Paese è proprio un’analisi del bisogno di accoglienza. E quindi si creano di continuo (io credo artatamente) delle condizioni di enorme pressione alle quali si dà una risposta insufficiente e temporanea. Questa non è accoglienza, è lo scadimento verso forme basiche e destrutturate di accoglienza».
Ad esempio?
«Ad esempio, la legge 50/2023, l’ex cosiddetto “decreto Cutro” (non lo chiamo così perché trovo che questa etichetta sia un’offesa ai cutresi e alle vittime della strage), toglie la possibilità al sistema pubblico, cioè il SAI ex SPRAR, di accogliere i richiedenti asilo. Nella mia città e provincia, Parma, CIAC e i suoi sportelli aggiornano una lista d’attesa delle persone in diritto di ricevere accoglienza da parte dello Stato che però non la ricevono. Ebbene, ad oggi abbiamo 170 persone escluse dall’ingresso nel SAI, anche vi fossero dei posti vuoti. E’ uno dei paradossi per cui dico che si sta accogliendo poco e male, non sicuramente secondo il bisogno e sicuramente non secondo un programma e una logica. Perché alla fine questo limita anche le possibilità di integrazione. Nella mia ormai lunga esperienza di accoglienza ho verificato costantemente che è da come si accoglie fin dall’inizio che dipende in gran parte il periodo di integrazione successiva. Il nostro Paese si trova di fronte a un bivio: accogliere bene sin da subito, creando percorsi di tutela e integrazione, oppure affidarsi all’improvvisazione, spesso irrispettosa dei diritti umani oltre che della dignità delle persone, moltiplicando veri e propri parcheggi dove le persone sono stipate come oggetti, per poi gridare all’“allarme accoglienza”. Questa è una scelta politica, culturale se vogliamo. Ma la recente questione ucraina ce l’ha dimostrato, accogliere bene fin da subito si può fare. Si può fare che le persone appena arrivate non siano degli irregolari, si può fare che le persone siano ospitate anche con il contributo della comunità locale e ricevano un’accoglienza duratura e dignitosa. In questo senso la non-scelta ha un’unica “ragione”: creare gruppi sociali marginali e conflitti con la popolazione autoctona».
Ad aprile sulla rivista Altreconomia avvertivi che l’impostazione di quella che è poi diventata la legge 50 è ancora peggiore dei “decreti sicurezza” del 2018. Perché?
«Prima di tutto c’è la cancellazione di alcuni servizi fondamentali, dall’orientamento legale all’insegnamento dell’italiano, all’assistenza psicologica nei centri di primissima accoglienza. Questo è un aspetto gravissimo. Ma soprattutto si inaugura una limitazione della libertà personale nei centri di confinamento per i richiedenti asilo. Assistiamo cioé a un peggioramento rispetto a quella che era la centralità dei centri di accoglienza straordinaria (i CAS) nei decreti cosiddetti “sicurezza”: ci avviamo a inaugurare un sistema concentrazionario, di segregazione, dei richiedenti. Quando sappiamo bene che la limitazione della libertà personale è pericolosa perché crea un sistema che sfugge al presidio della società civile. Visti anche i precedenti, cioè quello che è accaduto in questi anni e in questi mesi nei CPR e nei centri chiusi, si profila il drastico peggioramento di una situazione già non buona».
Dalla legge alla cronaca: il prefetto di Parma ha poi risposto alla lettera aperta di 12 associazioni, fra cui il CIAC, del 28 giugno sui richiedenti asilo arrivati dalla rotta blacanica e costretti a dormire in strada in via Cavestro, senza accoglienza?
«No, e nemmeno si è avuta risposta da parte di Questura e Prefettura sui ricorsi che sono stati presentati da 13 richiedenti di provenienza afghana, pakistana e bangladese lo scorso ottobre e che hanno ottenuto ragione dal Tribunale di Bologna: Questura e Prefettura non hanno ancora rispettato l’ordinanza del Tribunale».
Solo un paio di settimane prima, come CIAC avevate denunciato un’impennata dei migranti “a rischio socio-giuridico”: chi sono?
«Prima di tutto sono i richiedenti asilo, e fra loro in particolare quelli che non arrivano nelle nostre città attraverso la “filiera prefettizia” degli sbarchi ma entrano dalle frontiere di terra. Poi, sono i titolari di protezione speciale che non potranno rinnovare o commutare il loro permesso di soggiorno in un permesso per lavoro. Ancora, sono persone con il permesso per motivi di salute che già oggi, per una decisione che noi consideriamo illegittima ma che comunque è già stata messa in atto, non hanno la possibilità di convertire, di nuovo, il loro permesso in un permesso per motivi di lavoro, completando un percorso che, magari da una condizione di instabilità psichica, li aveva aiutati (anche proprio attraverso un’occupazione) a recuperare un’autonomia preziosa, per sè ma anche per la comunità locale: ebbene, oggi non possono più lavorare per il peggioramento della tutela giuridica introdotto dalla legge 50».
Avete anche dati quantitativi per il vostro territorio, vero?
«Facendo la somma delle varie categorie, sulla base dell’attività dei nostri sportelli (che incontrano circa 18 mila persone l’anno in tutta la provincia di Parma) in pochi mesi siamo passati dal contare circa 350 persone che definiamo appunto ad “alto rischio socio-giuridico” a 700. Si tratta di persone per le quali non è possibile attuare nessun tipo di intervento di tutela sociale, o che non hanno più i requisiti utili a mantenere la loro autonomia lavorativa, la loro indipendenza economica, la loro situazione contrattuale. In una parola, è un raddoppio delle situazioni che potremmo definire di grave marginalità. Per loro non ci sono strumenti che non siano informali, messi a disposizione da noi o dalla comunità stessa per far fronte a queste situazioni di precarietà lavorativa, alloggiativa o giuridica. Teniamo conto, fra l’altro, che la nostra è una stima cautelativa: la realtà potrebbe essere molto peggiore».
Su quali basi fai questa supposizione?
«In questi giorni, fra l’altro, stiamo osservando un peggioramento delle situazioni di disagio alloggiativo. Tradotto, stanno aumentando le persone fuori, che non hanno un tetto. Stiamo anche osservando sempre più nuclei familiari che vanno in difficoltà e che non hanno, ad oggi, risorse e possibilità di accoglienza».
Come è andata, alla fine, come sta andando l’accoglienza dei profughi della guerra in Ucraina cui accennavi prima? Sembrano scomparsi dalle narrazioni della politica e dei media.
«Abbiamo incontrato una popolazione con grandi fragilità e che tutt’oggi manifesta difficoltà. Ma ci sarebbe di che riflettere a partire dalle dimensioni stesse di questa accoglienza, che è stata resa possibile dalla prontezza e dalla tempestività delle protezioni giuridiche, le quali, fra l’altro, hanno consentito un elevato accesso ai servizi a una popolazione in gran parte di donne, minori e anziani. Cioè una popolazione che ha portato una complessità sconosciuta al sistema di accoglienza: malattie croniche o problemi di inserimento scolastico di bambini, ragazzi e adolescenti che hanno bisogno anche di interventi specializzati, di accompagnamento neuropsichiatrico, di compensazione dei traumi di guerra. Sono situazioni che ad oggi non sono risolte, ma almeno sono state assorbite nella rete del welfare territoriale (almeno dalle nostre parti, perché so che non è dappertutto così). I servizi sono stati posti di fronte a sfide non da poco, ma, come dicevo all’inizio, hanno dimostrato nei fatti che, con interventi individualizzati e con la sinergia professionale di accoglienza e servizi, non c’è nulla di non affrontabile in modo ordinato, tempestivo e attento alle dimensioni culturali, psicologiche, emotive delle persone. Questo però è rimasto un “privilegio” per gli ucraini. Per altre provenienze, a partire già dall’estate 2022 ma a maggior ragione in questi ultimi mesi, sono scattate fortissime, crescenti barriere all’accesso e alla presa in carico».
Poco ma sicuro, gli ucraini, al contrario degli “sbarchi”, non rimediano nemmeno più un trafiletto di quotidiano.
«Sono una parte del mondo dei rifugiati che ha vissuto una grande legittimazione giuridica, ma anche sociale. E per questo sono molto più accettati rispetto a persone di altra origine, e se me lo consenti con un altro colore della pelle…».
“Pensavo di essere libero, e invece no”Michele Rossi ha pubblicato nei “Quaderni Migrantes” la ricerca psicosociale Pensavo di essere libero, e invece no (Tau Editrice, 2021, pp. 94), che esplora una fonte inedita, le memorie autografe di circa mille richiedenti asilo in Italia e che, fra l’altro, ha l’obiettivo di contribuire ad aggiornare le pratiche, i modelli e le modalità di relazione del sistema di accoglienza e integrazione. «Un sistema la cui riforma non può prescindere dal considerare le soggettività cui è dedicato». Nel report 2022 su Il diritto d’asilo della Fondazione Migrantes (Tau Editrice, pp. 440), Rossi ha anche firmato il contributo “Il sistema di accoglienza in Italia dopo vent’anni. Poche cose da celebrare e molte su cui intervenire“. |
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