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Fabrizio Floris racconta dal di dentro il progetto “Nonsoloasilo”. Si tratta di un progetto che sostiene, con un contributo erogato dalla Compagnia di San Paolo, la rete di accoglienza e accompagnamento e l’inserimento sociale e lavorativo di 40 rifugiati e titolari di protezione internazionale sul territorio della regione Piemonte, ma soprattutto supporta le persone che hanno avviato un percorso di integrazione verso l’autonomia con la finalità di rendere possibile l’accesso alla cittadinanza. I partner capo fila sono Ufficio Pastorale Migranti e Cooperativa Orso. Si tratta di un progetto che si identifica pienamente con l’esperienza di Gino Filippini e il progetto “Education for life”  (http://eflkariobangi.org).

Al passo leggero con mani forti

di Fabrizio Floris*

Tutte le parole in voga hanno un destino comune: quante più esperienze pretendono di chiarire, tanto più diventano oscure. Quanto più numerose sono le verità ortodosse che esse negano e soppiantano, tanto più rapidamente si trasformano in norme che non si discutono.  Spariscono le varie pratiche umane che il concetto tentava all’inizio di mettere in luce, e ora il termine sembra “individuare alla perfezione” “i fatti”, o la qualità “del mondo reale”, con l’ulteriore pretesa di immunizzarsi da qualsiasi critica. I termini della progettazione sociale non fanno eccezione alla regola. “Partecipazione”, “parità di genere”, “promozione”, “sostenibilità”, finiscono per essere parole cariche di significati e ideali, ma che nella realtà si scontrano con una prassi quotidiana dove invece negano se stessa, finendo di descrivere azioni nelle quali si appesantisce sempre di più il carico messo sulle spalle delle persone.

Il progetto Nonsoloasilo ha invece provato a dare concretezza e forma alle parole attraverso un percorso di integrazione con i rifugiati politici. Dentro alle contraddizioni delle parole e del tempo abbiamo provato a camminare insieme alle persone per costruire un futuro possibile: quaranta rifugiati, dieci operatori, una fondazione, una cooperativa, un ente ecclesiale. Non enti, ma volti che hanno incrociato il proprio sguardo. Proviamo a vedere che cosa è successo.

I rifugiati, per lo loro stessa storia, sono vittime e in molti casi finiscono per acquisire la mentalità di chi “non può fare nulla di buono”, se non diventare un “bravo assistito”. Il percorso appare segnato e la visione che ne consegue è tutta costruita su elementi negativi: i rifugiati rischiano di finire schiacciati dalla fatica di un quotidiano stretto tra il disagio “europeo” e il dolore dei familiari che hanno aspettative e bisogni che non si riescono a soddisfare e conciliare: famiglie disperse, spezzate, decapitate. E’ in un contesto di questo tipo che ai rifugiati vengono offerte possibilità di accoglienza, aiuto, ma quelle che prevalgono sono le risposte strettamente assistenziali che per loro stessa natura hanno una durata definita e non sono risolutive. Noi abbiamo scelto di scommettere sulle persone, sulle loro capacità. Per questo motivo il primo passo è quello di fornire ai rifugiati informazioni, o per dirla con un termine “tecnico”, awareness (consapevolezza), su quello che è la vita in Italia, su quelli che sono i rischi e le opportunità del Paese che li accoglie. In seconda battuta ci siamo impegnati a sostenerli sia per le questioni quotidiane, sia nelle scelte che si trovano a dover affrontare.

L’aspetto principale è riuscire ad offrire ai rifugiati una visione positiva della vita: siamo convinti che un rifugiato, nonostante tutti gli svantaggi da cui una parte, può arrivare a vivere una vita dignitosa. Questo significa accompagnarlo nel difficile percorso di ricostruzione e riconoscimento delle proprie capacità, della propria forza, dei propri aspetti positivi. Tale processo non è per nulla scontato, dato che, in un Paese straniero, in una situazione di pressione e difficoltà materiale e psicologica, anche i proprio punti di forza finiscono per non essere più riconosciuti.

Il rischio del vittimismo, dell’abbandonarsi ai percorsi di pura assistenza, dell’attesa che “qualcuno si occupi di noi” è alto e per certi versi comprensibile. Ma in molti casi un rifugiato esce dal proprio Paese non per un certo periodo, spesso la possibilità di ritorno non è data e quindi occorre che ognuno di loro si attrezzi per una vita “adulta” fatta di responsabilità e scelte. Una vita che guardi al futuro e che esca dalla logica del “mi ha rovinato Siad Barre” o “sono sfuggito a una guerra, è già tanto se sono vivo”, una logica che blocca le persone, le incatena. La parte difficile infatti è fare sì che i rifugiati si rendano conto dei valori di cui sono portatori in quanto persone, delle proprie capacità, del fatto di avere power with in, una ricchezza da tirare fuori, con forza e magari anche con rabbia, per poter riuscire a costruire “qualcosa di buono”. E’ chiaro che in questo processo di ricostruzione della propria persona non possono essere lasciati soli. Recuperare l’autostima, la fiducia nei propri mezzi, la voglia di riprendere in mano la propria vita, la consapevolezza di essere capaci a prendere e portare avanti delle responsabilità, un lavoro, sono passaggi che vanno sostenuti anche con strumenti concreti, oltre che con la presenza, l’ascolto, l’accompagnamento psicologico.

Il progetto Nonsoloasilopropone quindi a quanti si trovano nella difficile condizione di rifugiati politici una prospettiva nuova: “nella vita c’è una strada per arrivare ad un obiettivo, se tu l’hai ben presente, se hai chiaro che cosa vuoi diventare e se sei determinato. E’ una strada da percorrere passo dopo passo, per la quale devi essere disposto a sacrifici”. Non è scontato che tutti i rifugiati ai quali facciamo questa proposta reagiscano positivamente e infatti questa fase iniziale è forse la più difficile. A volte è l’osservazione degli altri che dà forza e consapevolezza, come l’esempio di madri rifugiate, sole, non particolarmente istruite che però riescono a fare tanto per i propri figli. Altre volte la voglia di cambiamento viene dal sentimento religioso, dal sostegno tra pari, o dal confronto con operatori sociali. Non bisogna minimizzare le difficoltà, le fatiche: essere rifugiati politici, in Italia, non è facile. Ma bisogna fare sì che emerga la fiducia nelle proprie forze, e la voglia di farcela.

Per fare questo siamo andati oltre la logica operatore/utente, assistente/assistito, benefattore/beneficiario: chi dà e chi costantemente riceve. E’ una logica che si ispira a modelli di potere a gerarchie in chiara contraddizione con l’obiettivo dell’autonomia. Nonsoloasilo consiste in un gruppo di persone che si mettono in relazione con un altro gruppo (i rifugiati). Il soggetto dell’azione sociale, quindi, sono i rifugiati stessi, che agiscono, decidono, mentre gli operatori sono persone che stanno a fianco, spalla-spalla, che aiutano a valutare e ponderare le scelte, ma che non si sostituiscono alle persone. In sostanza si esce da dinamiche individuali tipiche della psicoterapia per entrare in dinamiche di gruppo dove i ruoli non sono predefiniti e si cerca una via di uscita condivisa dai problemi. Si è trattato di mettere a disposizione mezzi, risorse, competenze che hanno fatto crescere la vita delle persone. Ne abbiamo sposato i sogni, i progetti e i desideri. Poi un giorno ci siamo incontrati noi avevamo della terra i rifugiati dei semi, insieme abbiamo seminato e ora tra errori, fallimenti e gioie attendiamo che germogli il grano.

* Dottore di ricerca in sociologia, ha insegnato Antropologia economica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino e Sociologia generale presso le università di Milano e Betlemme. Ha condotto ricerche sul campo nelle baraccopoli di Nairobi, nei campi profughi del Kenya e alla periferia di Torino. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Città nude. Iconografa di un campo profughi, Franco Angeli, Milano, 2004. Puppets or people? A sociological analysis of Korogocho slum, Paulines, Nairobi, 2006, Eccessi di città: baraccopoli, campi profughi e periferie psichedeliche, Paoline, Milano, 2007 e «The population of the slums in italian cities: An analysis of camps and slums», in Mapping the Invisible: EU-Roma Gypsies, Blackdog London, 2010.

 

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