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Valsusa, sulla frontiera della neve/4 – L’ultimo miglio dei migranti al Monginevro

Storie di passaggi interrotti, di sentieri pericolosi in quota. Al Monginevro, per sfuggire ai pattugliamenti francesi i migranti si avventurano sulle piste del comprensorio sciistico della Via Lattea ai bordi di Claviere e Montgenèvre. Ma per essere più “sicuri” alcuni tentano la sorte anche più in alto, spesso rischiando la vita, di sera, cercando di valicare i colli di confine secondari. In montagna, nell’ultima stagione il Soccorso alpino e la Croce Rossa sono dovuti intervenire in almeno cinque casi gravi. In una testimonianza, la situazione al rifugio Fraternità Massi di Oulx dopo lo sgombero della casa cantoniera occupata.

In centro contro il cielo, il col Saurel (2.400 m) visto dalla Baita Gimont, sopra Claviere: durante questo inverno piccoli gruppi di migranti hanno tentato di valicarlo per evitare il posto di frontiera del Monginevro (foto Vie di fuga).

 

Nella tarda serata del 12 febbraio 2021 alla frontiera di Claviere la PAF, la polizia di frontiera francese, ha fermato un nucleo di padre, madre, due bambini di quattro e sei anni e un ragazzo di 15. Arrivano ancora una volta dall’Afghanistan. La donna è incinta al nono mese, prossima a partorire. I due adulti rifiutano di firmare dei moduli, gli agenti “firmano” per loro.

Sul luogo sono presenti anche il presidente dell’ONG Médecins du Monde Philippe de Botton e l’eurodeputato Damien Carême, chiedono di poter visitare la famiglia nel locale in cui è trattenuta. Gli agenti rifiutano: «Stanno bene», riferiscono solo. Date le condizioni della donna, sarebbe quanto meno ragionevole un ricovero in ospedale giù a Briançon, ad appena 12 chilometri. Però all’una di notte i cinque vengono respinti.

In Francia questo episodio ha suscitato la protesta, su scala nazionale, del gruppo di parlamentari francesi che dalla fine di gennaio monitorano in staffetta ciò che avviene al colle e nei dintorni al fianco dei maraudeurs, cioè i volontari e gli attivisti impegnati in azioni di ricerca dei migranti in difficoltà sul versante di Briançon.

Comunque, consegnata alla polizia italiana e quindi alla Croce Rossa, la nostra famiglia di afghani è stata accompagnata al rifugio Fraternità Massi di Oulx. Da qui la donna è stata subito trasferita all’ospedale di Rivoli (che dista altri 65 chilometri…), dove lo stesso giorno, ormai il 13 febbraio, ha dato alla luce un bambino. Oggi questa famiglia ha ripreso il suo viaggio ed è già fuori Italia.

NON C’È SOLO L’INVERNO/5 – Domande sulla Via Lattea

«Da giovane della valle non sono abituato a vedere un confine come barriera. Adesso ci troviamo nel grande “parco giochi” del comprensorio della Via Lattea, anche se in questo periodo di pandemia è un po’ spettrale, con gli impianti chiusi. Lassù c’è il col Saurel, là dietro quella cresta il col Chabaud: sono le nostre montagne. Ma qui siamo anche abituati a passare il Monginevro per andare a far compere a Briançon, se ne abbiamo voglia. Col nostro progetto MigrAlp siamo a Claviere e nei dintorni né per “spingere” né per fermare, ma per portare assistenza e soccorso in caso di necessità. Però vedere che ci sono giovani e famiglie intere che devono sottoporsi a dei rischi per attraversare una frontiera qualche domanda te la fa venire… Nel 2017 erano i giovani africani appena sbarcati o sbarcati da poco. Poi si sono aggiunti i migranti per i quali si era concluso il percorso di accoglienza o che avevano ricevuto un diniego, persone che lasciavano l’Italia dopo aver fatto corsi di lingua e professionali: tutte risorse perdute per il nostro Paese. All’epoca dei decreti “Salvini” si diceva: “Finisce il flusso di quelli che sbarcano in Italia e poi tutto si calmerà anche in valle di Susa”. Ma invece il flusso si è spostato da un’altra parte, con gli arrivi dalla rotta balcanica» (MICHELE BELMONDO, segretario del Comitato della Croce Rossa di Susa e operatore del progetto MigrAlp, durante un turno di perlustrazione sopra Claviere e Bousson).

Per essere più “sicuri” 

A dicembre è stata salvata una donna incinta all’ottavo mese che si era persa non lontano dal col Chabaud: un altro passo di confine secondario a quota 2.200 metri, a sudest del Monginevro, un paradiso di wilderness che d’inverno, di solito, viene raggiunto solo da escursionisti attrezzati con sci o racchette da neve. È la maledizione del Monginevro in questi anni, come di tutte le frontiere chiuse ai migranti e ai profughi. Non si passa dal varco ufficiale? Si prova ad aggirarlo.

Al Monginevro, per sfuggire ai pattugliamenti francesi ci si avventura sulle domestiche piste e sentieri del comprensorio sciistico della Via Lattea ai bordi di Claviere e Montgenèvre. Ma per essere più “sicuri” si tenta la sorte anche più in alto, spesso rischiando la vita, di sera, salendo fino ai colli secondari: oltre che al col Chabaud al col Bousson, a quota 2.150, o al col Saurel, 2.400, magari seguendo i consigli di altri migranti che lassù ci sono già passati, ma d’estate.

Così i 14 chilometri della route nationale 94 da Claviere a Briançon diventano almeno 18, e con difficoltà di tutt’altro tipo, specialmente se il tentativo viene fatto col buio. Ci sono notti dell’ultimo gennaio in cui il termometro, già a Oulx, è arrivato a 17 gradi sottozero.

Colli più alti a parte, in quest’inverno 2020-2021 la severità e la solitudine dell’ambiente alpino ha ripreso possesso anche delle piste più frequentate del comprensorio a causa delle restrizioni per la pandemia: gli impianti chiusi, certo, ma di sera anche l’assenza di mezzi battipista e del traffico per le cene in motoslitta ai rifugi della zona.

Emergenza al col Saurel

Oltre alla donna incinta soccorsa allo Chabaud, il Soccorso Alpino e la Croce Rossa (che fa anche ricognizioni sulle piste con un quad cingolato) in quest’inverno 2020-2021 sono intervenuti in altri quattro casi di seria necessità. Un giovane maliano soccorso nei pressi del col Saurel. Un altro migrante soccorso ancora una volta sulla pista verso il col Chabaud con una caviglia fratturata. Nel lockdown prenatalizio un terzo migrante si è arreso fra il col Bousson e la sottostante capanna Mautino ed è riuscito a chiamare aiuto; altri due compagni, un uomo e una donna, hanno proseguito.

 

L’episodio più grave però si è registrato alla metà di gennaio. Sera. A Claviere chiedono aiuto tre migranti. Sono appena scesi dai pendii del col Saurel, con altri quattro compagni non ce l’hanno fatta a passare per la neve alta, il freddo, lo sfinimento e il calar della notte. I soccorritori trovano due dei compagni a mezza strada, sopra la Baita Gimont, bloccati nella neve fresca, semiassiderati, e gli altri due al colle, nelle medesime condizioni. Due di loro saranno ricoverati in ospedale e a uno, algerino, saranno amputate quattro falangi.

Sempre a gennaio, ancora nella zona del col Bousson, dopo una segnalazione serale della Gendarmeria francese si è cercato al di qua e al di là della cresta di confine un possibile disperso, senza risultato.

Fra 2018 e 2019 la via della Valsusa è invece costata la vita ad almeno cinque migranti, tre sul versante francese e due su quello italiano.

Nei soli primi tre mesi di quest’anno, da gennaio alla notte fra il 24 e il 25 marzo gli operatori e i volontari del progetto MigrAlp hanno osservato, informato o assistito in alta valle di Susa  820 migranti.

NON C’È SOLO L’INVERNO/6 – “I migranti esistono, non scompaiono solo perché si sgomberano un po’ di persone”

«Nello sgombero della casa cantoniera colpisce la volontà di chiudere un luogo che, in ogni caso, da due anni offriva un’accoglienza che si affiancava, con apertura tutto il giorno, a quella del rifugio Massi. È mancata la minima progettualità. Si sapeva che la casa ospitava dei migranti. Chi se ne occupa, adesso che li abbiamo messi fuori? Ma i volontari, certo, le case di accoglienza in valle, tutto in emergenza… I migranti esistono, non evaporano perché si sgomberano un po’ di persone. Siamo un territorio dove gli arrivi sono continui. Adesso il rifugio è aperto 24 ore su 24, ieri sera era strapieno, i volontari vengono di continuo, gli operatori si fermano oltre il loro orario. Ecco, è mancata ancora una volta una visione d’insieme. Certo, a partire da scelte politiche che non si improvvisano: scelte di accoglienza seria, corridoi umanitari, maggiori spazi di passaggio per chi cerca una vita migliore…

Chi sono i migranti che incontriamo? Persone determinate, che hanno ben chiara l’idea di raggiungere un luogo, un “porto” più sicuro rispetto alla vita che hanno vissuto negli ultimi anni: hanno sofferto l’indicibile. Le famiglie che arrivano ci danno la sensazione di avere un’istruzione, delle capacità e delle risorse annientate, azzerate dal fatto di dover rimanere sulla strada, in viaggio, per uno, due, tre anni perché sono loro preclusi viaggi meno rischiosi e faticosi. Dai loro Paesi sono fuggite per paura di perdere la vita. Sui cellulari hanno i video di quello che hanno lasciato: “Vedi, qui abitavamo noi, questa era la nostra casa, e questi sono i taleban armati…”. Le nostre normative e quelle europee non “funzionano” di fronte a chi vuole costruirsi un futuro migliore e fa di tutto per raggiungerlo. Se l’Italia riuscisse a offrire un’accoglienza convincente in parte si fermerebbero. Ma pesa anche l’esperienza della mancanza di lavoro, del lavoro nero, della difficoltà di essere messi in regola. I giovani africani raccontano continuamente di esperienze di nero presso italianissimi datori, per mesi o anni.

Diversamente dai giovani che incontravamo nel 2017, in genere sbarcati da poco in Italia, oggi passano in valle ragazzi che avevano provato a inserirsi. Ma magari dopo un po’ di formazione professionale e un permesso scaduto, si ritrovano con nulla in mano: la loro delusione è forte. Ti rivolgi a loro in francese o in inglese e magari ti rispondono in italiano: è una cosa che fa pensare. E “italiani brava gente – ti dicono – ma non fanno il contratto”…» (SILVIA MASSARA, volontaria di Tous Migrants. Testimonianza raccolta il 25 marzo 2021).

 

 

Anastaziya, 13 anni: “Vi racconto il nostro viaggio dall’Iran all’Italia”. La testimonianza su On Borders, laboratorio di ricerca “su margini e attraversamenti”

«Siamo partiti due anni fa dall’Iran e siamo curdo-iraniani, siamo partiti per ragioni politiche e con uno smuggler che ci ha fatti arrivare in Serbia… Poi siamo passati in Bosnia e ci siamo fermati un anno a Bihac… Abbiamo tentato 14 volte di passare il confine. Ce l’abbiamo fatta poi camminando tre giorni…».

Certe testimonianze non si possono raccogliere con interviste mordi-e-fuggi. Questa, resa disponibile sul blog di On Borders, «laboratorio di ricerca e analisi su frontiere, margini e attraversamenti», è stata registrata dall’antropologo Piero Gorza ascoltando una famiglia curdo-iraniana arrivata a Oulx dopo due anni di viaggio lungo la rotta balcanica: “Maral” di 41 anni, “Billy” di 44, “Doshan” di 6, “Delžin” di 17 e “Anastaziya” di 13. I nomi, fittizi, sono stati scelti dalla stessa famiglia. La testimonianza è stata scritta prima di tutto in farsi da Anastaziya, che parla a nome del padre e degli altri familiari.

In Croazia, raccontano, «ogni volta che ci ha fermato la polizia di frontiera ci ha rubato tutto. Non ci hanno mai picchiati, però ci hanno fatto passare nell’acqua fredda del fiume. La situazione più brutta che abbiamo vissuto è stata attraversare la jungle (le boscaglie croate, ndr). Sono morte tre persone alla frontiera. Ora vogliamo andare in Germania se ci basteranno i soldi».

L’audio della testimonianza in traduzione italiana (23′ 30”) può essere ascoltato qui.

Leggi anche su Vie di fuga

Il “dossier” Valle di Susa

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