Vie di fuga apre un nuovo spazio di primo approfondimento con la voce di chi vive e lavora nel “mondo” del diritto all’asilo e alla protezione. In ogni incontro tre domande a cura della redazione e altrettante risposte: per mettere a fuoco i problemi del momento e provare a cogliere il nocciolo dell’attualità, quello “che conta” davvero. Iniziamo con Gianfranco Schiavone, socio dell’ASGI e presidente dell’ICS di Trieste. E con tre domande e risposte che hanno finito per “sconfinare” un poco, data l’ampiezza degli argomenti in questione: il (poco coraggioso) decreto protezione temporanea, la sfida dell’accoglienza diffusa dei rifugiati ucraini nel nostro Paese (“un’occasione per far crescere il coinvolgimento dei Comuni e delle famiglie”, grazie anche all’avviso di Protezione civile diffuso ieri) e i nuovi rischi di strumentalizzazione politica.
Gianfranco Schiavone, in queste settimane l’Italia ha recepito con un DPCM la decisione del Consiglio Europeo del 4 marzo che aveva introdotto la protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina. Domanda numero 1: che giudizio si può dare del decreto italiano?
«È un giudizio purtroppo negativo, perché il DPCM non allarga le possibilità di accesso alla protezione temporanea come aveva suggerito la stessa Commissione Europea. Mi riferisco a tre questioni in particolare. La prima riguarda le persone arrivate in Italia prima del 24 febbraio, ma che comunque erano uscite dall’Ucraina in prossimità di quella data per le evidenti tensioni legate al conflitto. La situazione di queste persone è identica a quella di chi è arrivato poco dopo, ma ora sono costrette a presentare domanda di protezione internazionale. Vengono così inserite nel canale ordinario, con un’attesa presumibile, per l’esame della loro domanda, di vari mesi o addirittura di un anno, e con un permesso di soggiorno per richiedente asilo che nei primi due mesi non consente di lavorare. Certo ogni data è arbitraria, ma si poteva indicare almeno l’inizio di febbraio».
La altre due questioni, invece?
«Il DPCM stabilisce che chi è fuggito dall’Ucraina e intende comunque presentare una domanda di protezione internazionale perché ritiene di aver subito una persecuzione individuale (pensiamo magari a un oppositore politico) può ovviamente farlo. Però l’esame della sua domanda sarà posticipato alla conclusione delle misure di protezione temporanea. Il danno per la persona può sembrare modesto, ma davvero non si capisce il perché di questo congelamento. E arriviamo alla terza questione, la più rilevante, che riguarda l’esclusione dalla protezione dei cittadini di Paesi terzi che vivevano in Ucraina senza un permesso di soggiorno permanente. Potevano avere già alle spalle una presenza radicata (pensiamo agli studenti universitari o a lavoratori da anni nel Paese), ma per loro, come avviene anche in Italia, non era certo facile ottenere un permesso permanente. Eppure, malgrado anche queste persone siano chiaramente fuggite dalla guerra, sono rimaste escluse dalla protezione temporanea».
Anche loro potranno fare domanda d’asilo…
«Sì, ma questa sarà valutata alla luce della situazione nel Paese d’origine, col rischio evidente che venga rigettata, perché sarà difficile dimostrare una persecuzione o il rischio di un danno grave. Quello che l’Italia non ha voluto considerare (allineandosi ai Paesi del “gruppo di Visegrád”, davvero non me lo aspettavo) è il danno e la sorte che queste persone hanno subito: già migranti da un altro Paese, si sono ritrovati in mezzo a una guerra e hanno perso tutto. Ecco, “concedere” anche a loro la protezione temporanea in Italia sarebbe stato un modo per trattarli semplicemente da persone e non da “furbetti” che “approfittano” della guerra per entrare nell’UE. Al limite, nel decreto si potevano mettere dei “paletti”, richiedere il requisito di un permesso di studio o di lavoro in Ucraina almeno pluriennale. E invece abbiamo detto no a tutto».
Domanda numero 2: come sta andando l’accoglienza in Italia dei rifugiati della guerra d’Ucraina?
«Non bene, purtroppo. Ci troviamo in una situazione che non è di grave emergenza solo per il fatto che l’accoglienza degli ucraini è un’auto-accoglienza, nel senso che sono le comunità ucraine a ospitare i connazionali: lo fanno in termini non dico maggioritari, bensì quasi esclusivi. È una fortuna per lo Stato, che avrebbe dovuto assistere al momento 90 mila persone con un sistema di accoglienza che ad oggi, per tutte le cittadinanze e le situazioni, dai richiedenti asilo ai rifugiati, ne ospita un numero inferiore. Sicuramente questo risultato non sarebbe stato raggiunto in tempi brevi neanche con un sistema migliore dell’attuale. Però in questa crisi la situazione italiana balza all’occhio: nonostante la grandezza del Paese e la sua esposizione geografica, il sistema di accoglienza è sottodimensionato e tendenzialmente di bassa qualità. Così se oggi non siamo finiti nel caos più totale è proprio grazie all’auto-accoglienza ucraina. È una situazione, del resto, che potrebbe non durare a lungo…».
Vale a dire?
«Se non vi sarà una prospettiva di rientro, in futuro anche un certo numero di famiglie che oggi accolgono potrebbero legittimamente chiedere alle Prefetture di farsi carico dei loro ospiti. Probabilmente per allontanare questo spettro, l’ordinanza di Protezione civile del 29 marzo sostiene le famiglie che ospitano cittadini ucraini per tre mesi con un contributo forfettario. È una misura ragionevole e che bisognava prendere, perché il sistema pubblico non poteva assorbire subito tutti gli arrivi. Ma va compresa anche nella debolezza italiana. Così come va letta all’interno di questa debolezza un’altra misura resa possibile dall’ordinanza, e che sicuramente è la più positiva: l’accoglienza in famiglia organizzata dalle associazioni nell’ambito di progetti precisi, fino a un massimo di 15 mila posti a livello nazionale, un numero obiettivamente abbastanza elevato (li contempla l'”Avviso per l’acquisizione di manifestazioni di interesse per lo svolgimento di attività di accoglienza diffusa nel territorio nazionale a beneficio delle persone provenienti dall’Ucraina” pubblicato ieri dalla Protezione civile in seguito all’ordinanza del 29 marzo, ndr). Si apre, quindi, un secondo canale “familiare” accanto a quello rappresentato dai nuclei che hanno legami di parentela o di amicizia con le persone che ospitano (e che per questo non hanno da rispondere al sistema pubblico in termini di qualità). Qui la Protezione civile ha recepito i suggerimenti che le erano stati dati e prevede servizi analoghi a quelli del SAI (l’ex SIPROIMI-SPRAR, ndr), anche se con una maggiore speditezza nelle procedure. La misura impone alle associazioni l’obbligo di monitorare la qualità dell’accoglienza presso le famiglie, anche italiane, e di erogare determinati servizi: la famiglia ospitante offre l’accoglienza “materiale”, mentre le associazioni si occupano dell’inserimento sociale, dell’avvio ai corsi di italiano ecc., con una buona impostazione che potrebbe addirittura aprire una sperimentazione innovativa».
Perché innovativa?
«Non sarà facile, perché bisogna tener conto del fatto che le persone accolte dal conflitto in Ucraina sono appena arrivate, mentre le forme tradizionali dell’accoglienza in famiglia si rivolgono a chi ha già un’esperienza di vita in Italia e si trova nella fase finale dell’accoglienza, quella dell’”accompagnamento all’autonomia”. Ora, invece, le persone sono inserite in famiglia al loro arrivo. Qui la normativa prevede la protezione immediata, il diritto al lavoro. Giocherà a favore, probabilmente, anche una certa vicinanza culturale nella comprensione dei meccanismi della nostra società. Però siamo di fronte a una sperimentazione che, per numeri e caratteristiche, fino a oggi non era mai stata attuata».
Domanda numero 3: la (doverosa) attenzione ai rifugiati ucraini rischia di penalizzare l’accoglienza degli altri arrivi, via mare e via terra? Almeno i numeri degli “sbarchi” sono inferiori rispetto all’anno scorso. Ma ci sono già politici secondo i quali occorre “distinguere” fra ucraini e… tutti gli altri.
«Sì, c’è il rischio di una strumentalizzazione “per rifarsi il look” da parte di esponenti politici che hanno alimentato la propria carriera sulla macchina dell’odio e che, non potendo osteggiare gli ucraini, cercano di raggiungere l’obiettivo per altra via, incitando a una discriminazione verso gli altri, che per la legge hanno comunque gli stessi diritti, ma possono fuggire da conflitti persino più gravi e arrivare da noi in condizioni peggiori: magari dopo anni di violenze nei Paesi di transito, dopo viaggi che lasciano traumi indelebili. Ora, questa volontà di “dividere” che si osserva in alcuni, oltre a mantenere posizioni politiche, probabilmente punta a far sì che, alla fine della crisi ucraina, l’accoglienza nel nostro Paese torni a essere quella piccola cosa che è oggi. Cioè, in sostanza, a far sì che non si sviluppi un nuovo sistema. Mentre invece questa è proprio un’occasione per far crescere il coinvolgimento dei Comuni e delle famiglie, sia in termini numerici che di impostazione dei servizi».
“Benvenuti in Italia (ma meno male che c’è la comunità ucraina)”: i numeri
(Fonte: elaborazione Vie di fuga su dati ministero dell’Interno e Comitato parlamentare “Schengen”) |
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