di Gabriella Gaetani, da Bruxelles
“Ai rifugiati ospiti dei nostri Paesi dobbiamo dare gli strumenti necessari per renderli di nuovo padroni della loro vita”. Un breve report del recente seminario “Social innovation for refugee inclusion” (Innovazione sociale per l’inclusione dei rifugiati), tenutosi a Bruxelles e organizzato dall’ECRE con le Missioni USA e canadese all’Unione Europea, il Consiglio d’Europa e il Comitato economico e sociale.
Di fronte all’arrivo di persone sempre più in difficoltà nel territorio dell’UE e di fronte alla chiusura dei diversi governi europei in risposta a questo fenomeno, si è reso opportuno creare un momento di riflessione tra diversi attori coinvolti nell’accoglienza e nell’integrazione dei rifugiati.
Uno degli obiettivi principali del seminario, tenutosi presso il Comitato economico e sociale europeo il 12 e 13 settembre, era infatti quello di connettere i nuovi e vecchi attori del settore per creare e sviluppare nuovi approcci a un tema di difficile soluzione, anche grazie all’uso di nuove tecnologie.
“Mai da soli!”
Eric Young, docente presso la canadese Ryerson University, ha introdotto l’espressione “innovazione sociale” al fine di creare nuovi modi di pensare, porsi quesiti, trovare nuovi modi di operare. Ed è questo che si è cercato di fare durante le due giornate a Bruxelles: creare una rete di attori molto diversi tra di loro, chiedersi se quanto realizzato fino a oggi ha prodotto risultati e, in caso di risposta positiva, quali sono, ma anche come rivedere ciò che non ha prodotto quanto sperato e come trovare nuove soluzioni insieme.
Le innovazioni di qualsiasi natura, in fondo, devono riuscire a ispirare altri attori, anche perché “creare innovazione” da soli è impensabile: è necessario creare una rete stabile di attori provenienti da diversi ambiti e con diverse competenze ed esperienze.
La solidarietà nel 21° secolo? Fare la pace
Un problema grave che le nostre società devono affrontare, però, è la xenofobia e il razzismo. Per Firas Alshater, youtuber definito «la prima “star” rifugiata di Youtube in Germania», in realtà il vero problema non consiste nel temere qualcosa o qualcuno diverso da noi, ma nell’uso scorretto che alcuni partiti politici fanno di queste paure, che invece possono essere guidate e infine venire meno.
Un’altra testimonianza arriva dall’attivista Yonous Muhammad, che descrive un altro fenomeno presente nelle nostre società: la solidarietà. La vera solidarietà non è donare vestiti e beni di prima necessità, o almeno non solo, ma è spingere le forze politiche a concludere le guerre, motivo per cui le persone sono costrette a lasciare le proprie case.
Persone normali, situazione straordinaria
Anche Dawit Friew, studente alla Norwegian University of Science and Technology, è d’accordo e in realtà va oltre, sostenendo che il termine “rifugiato” è da abolire, perché, dice, disumanizza la persona. Quando si parla di rifugiati non sembra ci si riferisca alle persone. Questo termine diventa un’etichetta: non si è più figli, studenti, genitori, lavoratori, professionisti in qualche settore, ma rifugiati.
È fondamentale, invece, restituire dignità a queste persone, persone normali che si trovano in una situazione straordinaria. Non bisogna mostrare umanità, ma dare rispetto e dignità.
L’inclusione sociale ha successo solo quando si parla con i protagonisti del fenomeno. Bisogna chiedere loro di attivarsi con le proprie forze, perché solo insieme si ha successo. Bisogna ricordarsi di trattare le persone come tali, come esseri umani e non come “oggetti” incapaci di agire.
Questo discorso vale anche quando si parla di tecnologia e innovazione tecnologica applicata ai problemi affrontati dai rifugiati. È inutile creare un’app apposita per rifugiati se esiste già per le altre persone, come per esempio Whatsapp, è necessario pensare perché può essere utile quella determinata app, a quale problema vissuto dai rifugiati può venire incontro quella determinata tecnologia. È necessario pensare e ideare insieme ai protagonisti gli strumenti utili a chi si trova nella loro stessa situazione.
E se gli operatori diventassero “obsoleti”?
Ahmad Al-Rashid, laureato in lingua e letteratura inglese ad Aleppo in Siria e ora studente di MSc Violence, Conflict and Development all’Università di Londra, ha evidenziato una sorta di gap culturale. Tutti coloro che sono coinvolti in questo tema devono «ritornare umani»: bisogna imparare nuovamente a parlarsi, a confrontarsi e a ragionare su ciò che si sta facendo, insieme.
Bisogna dare alle persone gli strumenti per poter essere una risorsa per i diversi Paesi in cui si trovano a vivere, altrimenti rimarranno per sempre un “problema”.
A Bruxelles, dalle testimonianze delle due giornate di seminario è emerso che è necessario collaborare, e non solo tra attori coinvolti: soprattutto, bisogna coinvolgere coloro che si trovano nella “situazione di rifugiato”, restituire loro dignità, fornire loro degli strumenti, pensare a tecnologie utili a tutti, usare le tecnologie in modo corretto, per arrivare a rendere gli operatori “obsoleti” e i rifugiati di nuovo padroni della loro vita.
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