L’opzione dei “canali sicuri” di accesso all’Unione Europea è trascurata dalle “Agende” e dal dibattito ufficiale in tema di migrazioni forzate. Ma non da movimenti e ONG. Mentre il prestigioso istituto su armi e disarmo SIPRI chiede almeno di esplorare la praticabilità delle “zone sicure” in Siria: “Se si deve usare la forza, meglio usarla per salvare le persone piuttosto che lanciare raid che creano solo martiri, i quali a loro volta ispirano nuovi militanti”.
Nello scorso fine settimana, l’arrivo di potenziali richiedenti asilo e migranti in Grecia (27 mila persone) ha superato i picchi registrati nella scorsa estate. E intanto si aggrava il bilancio di vittime nell’Egeo, dove dall’inizio dell’anno hanno perso la vita 291 persone, di cui 25 nella sola ultima settimana. Ma le vittime sono cresciute anche nel Mediterraneo centrale (Canale di Sicilia).
Dall’inizio dell’anno, secondo dati del progetto Missing Migrants dell’OIM, fino al 20 ottobre gli arrivi nel Mediterraneo sono stati in tutto circa 651 mila, di cui 508 mila solo in Grecia. Poco più di 140 mila gli arrivi in Italia, 105 a Malta e 3.000 in Spagna. In tutto il Mediterraneo in questo 2015 hanno ormai perso la vita 3.138 fra migranti e potenziali richiedenti asilo.
Intanto, nell’emergenza Balcani di questi mesi, per la prima volta un migrante è morto per un colpo di arma da fuoco sparato da guardie di frontiera dell’Ue: è accaduto vicino al confine bulgaro-turco, dove, sempre il 16 ottobre, un proiettile di agenti bulgari ha ferito a morte, forse di rimbalzo in una scarica di “avvertimento”, un migrante afghano.
Tutto questo ripropone il tema dei “canali sicuri” di accesso all’Unione. Un tema trascurato nelle “Agende” e nei dibattiti europei in tema di immigrazione.
Resettlement: “20 mila posti? Ne servono otto volte tanto”
In queste settimane ha chiesto ai ministri degli Interni dell’UE «canali d’ingresso legali e sicuri per i rifugiati» una petizione promossa dalla piattaforma sociale WeMoveUe e dal Cir. Al centro della petizione, che ha avuto oltre 10 mila adesioni, la proposta di «riaprire in sede europea la discussione sul reinsediamento, attivando almeno 160 mila posti al posto dei 20.000 attualmente previsti».
Non si parla qui di ricollocazione, ma di resetttlement, cioè dell’accoglienza in Europa di una minima parte dei rifugiati attualmente ospitati nei Paesi di prima accoglienza (primi fra tutti i 4.180.000 siriani oggi accolti nel vicino Oriente).
“Usiamo le ambasciate”
Il tema è al centro anche di una “raccomandazione” del Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2015 di ANCI, Caritas, SPRAR e Migrantes, nella quale si legge: «Si raccomanda che, nei casi di crisi umanitaria che determinano flussi eccezionali di profughi, vengano ampliati i canali umanitari di ingresso in Europa anche attraverso il rilascio di visti da richiedere alle ambasciate dei Paesi di transito e origine, facilitando l’accesso, anche nei Paesi terzi, ad ambasciate di Stati membri diversi da quelli per i quali si intende chiedere il visto di ingresso».
Ma prima dei “canali sicuri”, le “zone sicure”
A settembre è entrato nel dibattito sui flussi migratori verso l’Europa anche il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’autorevole istituto di ricerca svedese su armi e disarmo. Il suo direttore Dan Smith, in una critica analisi sugli sviluppi dell’Agenda europea sulla migrazione, ha ricordato l’opportunità di pensare a “zone sicure” in Siria per la popolazione. «E’ sorprendente che non siano nell’agenda politica – scrive Smith -. Sono rischiose, perché come ha dimostrato la guerra di Bosnia è più facile dichiararle che renderle davvero sicure. Ma se bisogna usare la forza, sarebbe meglio usarla per difendere le persone piuttosto che lanciare attacchi aerei o missilistici che creano solo martiri, i quali a loro volta ispirano nuovi militanti. L’opzione di stabilire “zone sicure” è almeno degna di essere valutata».
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