Ancora una volta nel raccontare le storie, il coraggio dei sei atleti rifugiati dei Paralympic Games e il significato della loro rappresentanza è facile scivolare sulle bucce della retorica, dei luoghi comuni. Però, nonostante tutto, a Tokyo 2020 è ancora possibile ricordare qualche briciola di verità, magari facendo la tara del… “di troppo”.
Parfait Hakizimana, lottatore di taekwondo burundese, Anas Al Khalifa, canoista siriano, Alia Issa, anche lei di origine siriana, specialista in una disciplina di lancio e prima “para-atleta” donna rifugiata di sempre, Ibrahim Al Hussein, nuotatore siriano, Shahrad Nasajpour, lanciatore del disco iraniano, e infine Abbas Karimi, afghano, un secondo nuotatore. Può essere che sentiremo presto parlare di loro perché sono i sei atleti della Squadra paralimpica di rifugiati che da oggi partecipa ai Giochi Paralimpici di Tokyo 2020.
Se alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 aveva già partecipato un team di rifugiati, è la prima volta che ne gareggia uno anche ai Giochi Paralimpici. Alle Paralimpiadi di Rio, infatti, grazie alla collaborazione fra International Paralympic Committee e UNHCR avevano potuto partecipare solo due rifugiati sotto la bandiera della Squadra indipendente.
Bucce di retorica, briciole di verità
Ancora una volta nel raccontare le storie, il coraggio dei sei atleti dei Paralympic Games e il significato della loro rappresentanza è facile scivolare sulle bucce della retorica, dei luoghi comuni, del rischio di chetare per una manciata di giorni, con lo spettacolo e la condivisione di un rito globale, la cattiva coscienza di grandi istituzioni e di una “comunità internazionale” che includono ai massimi livelli pochi singoli ma intanto sono incapaci di fermare i meccanismi e le violenze che producono sempre più sradicati e persone in fuga. Però, nonostante tutto, è ancora possibile ricordare qualche briciola di verità, magari facendo la tara del… “di troppo”.
La presenza di questi sei giovani atleti «sulla scena mondiale segna un momento storico per oltre 12 milioni di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo che vivono con disabilità in tutto il mondo – ha detto ieri Filippo Grandi, l’alto commissario ONU per i rifugiati -. Le persone costrette allo sradicamento forzato e che convivono con una disabilità possono essere maggiormente a rischio di discriminazione, violenza e sfruttamento. Ma nonostante queste sfide, i rifugiati con disabilità sono agenti di cambiamento positivo, anche nel campo del “parasport”».
Per l’UNHCR lo sport aiuta a combattere lo stigma e la discriminazione anche in questo campo, sfidando «i pregiudizi su ciò che le persone con disabilità costrette alla fuga possono e non possono fare, e offrendo opportunità di inclusione e responsabilizzazione».
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