Alexandra D’Onofrio, classe 1982, è una antropologa e una regista di documentari italo-greca che vive fra l’Italia e la Gran Bretagna . Fra il 2006 e il 2008 ha realizzato l’audio-documentario fotografico “Caught in between Darkness and Light” che racconta il viaggio verso il Regno Unito di un gruppo di rifugiati partiti da Milano e bloccati a Calais e nel 2012 “La vita che non CIE“, lavoro composto da 3 cortometraggi sui Centri d’identificazione ed espulsione italiani.
Puoi spiegarci la tua formazione professionale e se è stata quest’ultima a portarti verso i rifugiati e gli immigrati o qualche altro evento della tua vita?
Sono cresciuta a Londra negli anni ’80, figlia di una donna greca e di un uomo italiano. Finché non mi sono trasferita in Italia non ho mai pensato che qualcuno con una diversa provenienza geografica potesse essere relegato in categorie forzate come quelle dell'”immigrato” o del “rifugiato politico”. A Londra, quelli che nel nostro Paese sono chiamati i figli degli immigrati, fossero essi di prima o seconda generazione, erano amici, compagni di scuola, come me crescevano in famiglie in cui si parlavano altre lingue, si mangiavano cose diverse, e che avevano nonni che stavano in paesi spesso più caldi e lontani. Quando a 11 anni ci siamo trasferiti a vivere in un paese della Brianza mi sono ritrovata in un contesto in cui le compagnie dei bambini e le classi scolastiche erano molto più omogenee e lì, a partire dalla mia stessa esperienza e da quelle di altri compagni di origini diverse, ho iniziato a percepire l’estraniamento.
Ho poi cominciato a “occuparmi” ufficialmente di migrazione e di asilo politico dopo la laurea in Antropologia conseguita a Londra, e dopo l’esperienza di Teatro dell’Oppresso in Brasile conclusasi nel 2005. Dopo il Brasile sono infatti ritornata a Milano e ho cominciato a lavorare al Naga come volontaria, sia nelle carceri che con i rifugiati; finché nel 2006 il Naga stesso mi ha proposto di realizzare un progetto teatrale per la Giornata mondiale contro le vittime di tortura e da questa prima esperienza è nata la compagnia di teatro sociale Fandema. A questo progetto ne sono seguiti molti altri e fra i più importanti vi è sicuramente la fondazione di Asnada(2009), una scuola spermentale di italiano, sorella milanese di Asinitas Onlus, rivolta a tutti gli stranieri del territorio.
La compagnia Fandema esiste tuttora ed è molto attiva, qual’è la sua composizione e i suoi ambiti di attività?
Fandema è una compagnia di teatro mista, riunisce persone di diverse provenienze geografiche, vi si trovano infatti sia migranti che richiedenti asilo e rifugiati ma anche volontari e operatori sociali italiani. Lo scopo di Fandema è quello di lavorare su tematiche politico-sociali, ma anche culturali, che riguardano in prima persona i membri della compagnia stessa. Si cerca di creare contesti di lavoro teatrale che raccontino le situazioni conflittuali che gli stranieri si trovano a vivere a Milano. La nostra volontà è di favorire l’incontro e lo scambio attraverso una metodologia artistica che si rifà al Teatro dell’Oppresso.
Fandema è per sua natura un gruppo teatrale aperto e per questo nel corso degli anni si è ampliato lo spettro delle tematiche affrontate, per esempio uno degli ultimi lavori portati a termine è stato sulla Sanatoria truffa del 2009 dove i protagonisti erano soprattutto egiziani. Quest’anno a maggio Fandema è stata presente a Roma al Festival di Teatro dell’Oppresso Migranti con un nuovo forum intitolato ” Scelta a senso unico”.
Oltre l’esperienza di Fandema il 2006 è stato l’anno in cui hai compiuto un viaggio a Calais da dove è nato l’audio-documentario “Caught in between”. Che cosa ti ha portato a realizzare questo lavoro?
A partire dall’esperienza e dagli incontri fatti grazie al progetto Fandema mi sono avvicinata alle storie di viaggio e alle esperienze di chi migra forzatamente, lasciando non solo il Paese d’origine ma anche un’identità che necessariamente va ri-cercata e ri-costruita. “Caught in between Darkness and Light” è stato realizzato per il master in Antropologia visiva che stavo conseguendo a Manchester ed è nato seguendo un gruppo di amici etiopi, eitrei, sudanesi che avevo incontrato e conosciuto a Milano e che desideravano abbandonare l’Italia. Nel novembre 2005 avevano occupato un palazzo in via Lecco e io trascorrevo molto tempo con loro, condividendo tempo e spazio di vita. Quando hanno cominciato a progettare un viaggio verso la Gran Bretagna ho chiesto loro se potevo aggregarmi e realizzare un lavoro audio-fotografico, di taglio antropologico. Siamo arrivati insieme fino a Calais da dove poi loro hanno proseguito verso la Gran Bretagna e io ho fatto ritorno a Milano. Ho ripetuto l’esperienza del viaggio Milano-Calais nel 2008, seguendo un altro gruppo di rifugiati di origine etiope e questa volta ho raccolto le loro storie, narrate la notte intorno al fuoco.
Quali sono i tuoi progetti al momento?
Ora pur continuando più da esterna le collaborazioni con Fandema e Asnada, sto facendo un dottorato in antropologia visuale e performance, e lavoro principalmente con egiziani che sono venuti in Italia passando le frontiere senza avere i “requisiti” richiesti. Ciò che m’interessa maggiormente è trovare dei metodi creativi (storytelling, video, fotografia, disegni animati…) per rappresentare i mondi immaginari che hanno spinto le persone ad affrontare determinate esperienze, come quella dell’attraversamento del Mediterraneo in barca o del viaggio in generale.
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