Una stagione di criminalizzazione (tuttora in corso) sta svuotando letteralmente il Mediterraneo centrale dalle navi della società civile. Cambiano le modalità ma il risultato è il medesimo: assenza di aiuti, aumento delle morti.
Nell’ultimo anno la strategia istituzionale di contrasto al soccorso in mare si è spostata dal piano penale a quello amministrativo. Lo scopo è sempre quello di bloccare le navi della società civile attraverso cavilli burocratici.
Interessante a tal proposito leggere le motivazioni riportate nei comunicati stampa diffusi dai Comandi generali delle Capitanerie di porto coinvolte: sono sempre le stesse. Intoppi burocratici, mancanza di sicurezza, problemi tecnici, violazioni anche delle normative a tutela dell’ambiente marino (sic).
Il cambiamento principale che riportano i portavoce delle ONG è che adesso si cerca di non far neppure partire le navi. I fermi amministrativi funzionano da misura di controllo e limitazione della loro azione nel Mediterraneo centrale. E a sostegno di questa azione i paesi dell’UE utilizzano la strategia della criminalizzazione: i dati raccolti dall’Agenzia Europea dei Diritti Fondamentali parlano di ben diciassette navi impegnate in operazioni di salvataggio in mare coinvolte in procedimenti legali tra il 2017 e giugno 2020, per un totale di oltre quaranta indagini avviate dagli stati europei (ma nessun procedimento ha raccolto prove sufficienti a far cominciare un processo)
Cronache di una criminalizzazione del salvataggio in mare 5 maggio 2020 La prima nave fermata è stata la Alan Kurdi, battente bandiera tedesca; |
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