Nelle settimane in cui sono state pacificamente liberate le ultime due palazzine dell’occupazione dell’ex MOI nell’ambito di un progetto inter-istituzionale unico in Italia che vede fra i suoi partner la Diocesi di Torino, qualche dato e qualche considerazione sull’accoglienza abitativa diocesana dopo gli anni dell'”emergenza migranti” (e ai tempi dei decreti immigrazione e sicurezza).
Vogliono i migranti? Li ospitino a casa loro, ripete ancora, di tanto in tanto, il refrain aggressivo e vuoto. Senza curarsi di quante famiglie, poche o tante che siano, a “casa loro” già lo fanno. Ma accolgono “a casa loro” anche realtà più complesse, come ad esempio le diocesi, intese come comunità e non solo come istituzioni. Una di queste è la diocesi di Torino.
Fra le iniziative di accoglienza abitativa che essa ha promosso o a cui partecipa, ma anche per gli organismi più diversi attivi sul territorio (Pastorale migranti diocesana, parrocchie, istituti religiosi, associazioni, cooperative, famiglie e singoli che hanno deciso di impegnarsi in prima persona…), non è facile tirare le fila. Ma nelle settimane in cui si è completata una tappa importante del superamento dell’occupazione dell ex MOI di Torino, con lo svuotamento delle ultime due palazzine nell’ambito del progetto interistituzionale “MOI, Migranti un’opportunità di inclusione” (vedi nel riquadro più sotto), ecco qualche dato e qualche considerazione dopo gli anni della cosiddetta “emergenza migranti” (e ai tempi dei decreti immigrazione e sicurezza).
Un tetto e non solo
In questo periodo fanno o hanno fatto capo alla diocesi subalpina centinaia di posti d’accoglienza sostenuti interamente con fondi propri, o diocesani o della CEI presso decine di parrocchie, appartamenti, istituti o altre strutture; i 28 posti del progetto SPRAR di accoglienza in famiglia “Rifugio diffuso“; la partecipazione a un progetto con fondi FAMI per l’accoglienza di decine di minori non accompagnati; e ancora, centinaia di posti in CAS allestiti in appartamenti, istituti religiosi e, di nuovo, in altre strutture.
«Come Pastorale migranti di Torino – puntualizza a Vie di fuga Sergio Durando, direttore di questo ufficio diocesano -, sull’accoglienza abitativa lavoriamo soprattutto per la connessione e l’attivazione di reti e risorse, umane, economiche e immobiliari per far fonte ai bisogni crescenti di diverse categorie di persone».
Si va dall’accompagnamento in percorsi di autonomia abitativa per nuclei famigliari “fragili” (non solo immigrati) all’alloggio di studenti universitari extra-UE (un’ottantina, accolti in 30 appartamenti); da “Rifugio diffuso” (di cui la Pastorale migranti è “soggetto attuatore“) alla promozione-supporto per l’accoglienza diffusa nelle parrocchie e in comunità religiose; dalla messa a disposizione di immobili per progetti di accoglienza non profit alla partecipazione al progetto ex MOI in rappresentanza della Diocesi; dalla collaborazione per l’apertura di una comunità per MSNA a San mauro Torinese (un’esperienza conclusa nello scorso marzo) alla promozione del progetto sperimentale unico in Italia per la “residenza transitoria” nata dall’occupazione di via della Salette, a Torino; fino alla partecipazione ai Corridoi umanitari per i rifugiati dalla Siria e dall’Etiopia e all’ospitalità data a due migranti sbarcati nel 2018 dalla nave Diciotti.
Quell’esperienza con i CAS
Una realtà con cui la Pastorale migranti collabora è la Terremondo di Torino, nata nel 2003 dall’esperienza dell’associazione ASAI. Nell’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, questa cooperativa ha lavorato e continua a lavorare con giovani e famiglie migranti, e a supporto di parrocchie e istituti religiosi.
Fra 2016 e 2018, con una cinquantina di posti complessivi in questo settore d’attività, gli operatori di Terremondo hanno seguito circa 150 persone. «Possiamo dire che abbiamo aiutato ad inserirsi in Italia tre quarti di loro – tira le somme il presidente della cooperativa Luca Mastrocola -, fra accompagnamenti all’autonomia, verso inserimenti nello SPRAR, con il proseguimento di accoglienze abitative…».
Una delle “formule” amministrative adottate in questi progetti è stata quella dei CAS, i centri “straordinari” che fanno capo alle Prefetture. «Questa esperienza è stata faticosa e per certi versi positiva – commenta ancora Mastrocola -, ma non l’abbiamo più proseguita».
«Negli anni dell'”emergenza” – spiega – abbiamo visto lavorare gestori in modi molto diversi. Quanto a noi, abbiamo puntato su un’integrazione vera, piccoli gruppi di ospiti, non più di 10 per gruppo, in alloggi, con un numero sufficiente di operatori, con la responsabilizzazione verso l’autonomia, con formazione e orientamento al lavoro, con il coinvolgimento di territorio, volontariato e cittadini, avendo come riferimento il modello dello SPRAR. Ma oggi per gli ospiti che l’Italia inserisce nei CAS le chance sono drasticamente diminuite: a causa della sostanziale abolizione della protezione umanitaria sono in gran parte “diniegati” e dopo un iter di due, due anni e mezzo finiranno per ricevere un provvedimento di espulsione, ma di certo non se ne andranno, diventando così degli irregolari. Personalmente lo ritengo fallimentare e pericoloso. Comunque sia, anche questo ci ha spinto a lasciare l’esperienza dei CAS».
Fine delle convenzioni, ma non è detto che sia la fine delle accoglienze. Ad esempio, nonostante il mancato rinnovo di una convenzione CAS, quest’anno l’accoglienza parrocchiale di Rivoli (uno dei comuni dell’hinterland torinese) con il supporto di operatori di Terremondo prosegue perché la parrocchia e la stessa Terremondo si sono fatte carico direttamente dei costi.
Per saperne di più
Dall’occupazione alla residenza: all’esperienza pilota di via della Salette a Torino è dedicato il focus “La Salette 2014-2017” nel report 2018 Il diritto d’asilo della Fondazione Migrantes (pp. 163-170)
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