La vicenda di uno dei pochi rifugiati libici in Italia. Appartiene a una delle minoranze del Sud desertico, è stato un militare, ha mantenuto i contatti con la famiglia. Nella sua testimonianza, la guerra del 2011, la fuga, e un giudizio sulla situazione del suo Paese oggi.
«Oggi c’è Whatsapp, puoi mandare anche i video e fare videochiamate. Ma anche questo non ti risolve i problemi…». Ha 34 anni, Vie di fuga lo ha incontrato in una città del Nord Italia. «Devi proprio mettere il mio nome? Metti Ibrahim Mohamed, è meglio…». Con la protezione sussidiaria, “Ibrahim” è uno dei pochi, pochissimi rifugiati dalla Libia nel nostro Paese. È fuggito nel 2011, l’anno della guerra civile e poi internazionale, e dell’inizio del caos.
Appartiene a una delle minoranze del Sud, nel Fezzan, un po’ usate e un po’ discriminate sotto quello che fu il regime di Muhammar Gheddafi. Mantiene i contatti con la famiglia: un fratello era venuto con lui in Italia ma poi ha fatto ritorno in patria.
Lui no, è meglio che non torni: nella sua regione, da militare delle truppe gheddafiane, racconta di essere stato un bravo addestratore, i nemici di quel periodo se ne ricordano ancora e gliela farebbero pagare.
Armi come i cellulari
«Per fuggire da quell’inferno – racconta Ibrahim – ci siamo imbarcati a Tripoli », lui, il fratello e dei cugini, «quando i ribelli entravano in città aiutati dai bombardamenti degli aerei NATO. Abbiamo venduto le armi, abbiamo fatto finta di essere dei nigerini che non capiscono l’arabo. Non è bastato per ingannare i trafficanti, con la pelle cotta dal sole capivano subito se eri un militare. Ma ci hanno fatto salire sulla barca lo stesso. Non ci interessava sapere verso che Paese andavamo, ci bastava partire dalla Libia in fiamme».
Sbarco a Lampedusa. Poi, nei meandri a volte grotteschi dell’accoglienza all’italiana, Ibrahim si è ritrovato in un CIE del Nord Italia.
Quindi la liberazione, la concessione della sussidiaria. E l’inizio di un percorso di accoglienza e inserimento non facile, venato di rimpianto. «Qui da voi ho visto i tram per la prima volta. Sono cresciuto nel deserto. Gheddafi non mi piaceva. Ma in Libia avevamo tutto, più il petrolio. A 18 anni guidavo un fuoristrada…».
Ibrahim, in tutto questo tempo sei rimasto in contatto con la tua gente: com’è la situazione nella tua regione oggi? «Che ognuno dipende dal “regime” di casa sua. Francia e USA in Libia hanno fatto un casino che ci vorranno anni e anni per risolverlo: la Libia è un Paese diviso strada per strada. Armi dappertutto, come i cellulari, una pistola ti costa 10 euro. E se non c’è lavoro, con le armi cosa fai?…».
“Al-Sarraj, ma chi è?”
A febbraio il governo italiano ha firmato un memorandum con il “Governo di riconciliazione nazionale” di Fayez al-Sarraj (l’accordo è stato poi sospeso a marzo dalla Corte d’Appello di Tripoli, benché non si sappia con quali effetti reali). Sempre a febbraio, a supporto del memorandum il ministro dell’Interno Minniti ha raggiunto un “accordo” con 10 sindaci del Fezzan.
Alla fine di marzo il Viminale ha propiziato un “accordo di pace” fra i gruppi tribali del Sud degli Awlad Suleiman e dei Tebu alla presenza dei capi Tuareg. E nei giorni scorsi Minniti ha incontrato al-Sarraj a Tripoli per «rafforzare» la «cooperazione nel campo della sicurezza» (la consegna di motovedette e appoggio per riportare in Libia le barche di migranti fermate in mare, per il «controllo delle frontiere» e il contrasto dei traffici illegali…).
«Se vuoi il mio parere, per quello che conta, è difficile che tutto questo riuscirà a fermare i traffici di persone – commenta Ibrahim, uomo del Sud –. Ci sono migranti e migranti che vogliono passare, e accettano di pagare. Su quei confini devono fermarli dei soldati che faticano a ricevere lo stipendio? I sindaci: laggiù contano solo le armi, l’Europa può proteggerli? E il presidente al-Sarraj: ma chi è? Sarraj è vostro, non nostro. Voi gli parlate. Ma per tanti è nessuno».
Ieri e l’altroieri il ministro Minniti aveva in agenda nuovi incontri a Roma con i colleghi di Libia, Ciad e Niger per arrivare a presidiare la frontiera meridionale libica, più di 1.000 chilometri di deserto.
Ma solo pochi giorni prima, nell’eterna lotta tra fazioni che ha polverizzato quello che restava della Libia come Stato, un attacco a Brak al-Shati, nel Sud del paese, a una base aerea controllata da forze del generale Khalifa Haftar ha causato una strage di 130-140 morti.
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