Anche l’Unione europea, come larga parte del resto del mondo, si ferma per contrastare il propagarsi della pandemia da coronavirus, che ad oggi è risultata in molti casi fatale, nonostante l’assistenza medica, per persone anziane o con pregressi problemi di salute. Ma su alcune isole greche che si affacciano sulla costa occidentale della Turchia, dove decine di migliaia di profughi vivono in campi dalle condizioni igienico-sanitarie degradanti, una massiccia diffusione del virus non potrebbe trovare risposta sanitaria adeguata e rischierebbe di causare una tragedia umanitaria che investirebbe anche molte donne, bambini e giovani uomini in salute.
di Pietro Derossi, 17 aprile 2020, da Lesbo
(segue dalla corrispondenza del 6 aprile)
I servizi igienici e l’assistenza medica nei campi profughi: la “normalità” precedente al virus
Lavarsi con maggiore frequenza le mani, disinfettare e pulire le superfici e mantenere le distanze dagli altri: misure facili da rispettare per chiunque viva nell’Unione europea, tranne che per i nostri ospiti più indesiderati. Nel campo profughi di Moria, le persone ad oggi vivono con un bagno sporco ogni 160 persone, una doccia ogni 500, una fonte d’acqua ogni 325. Nelle tende, le persone vivono con meno di 3,5 metri quadri a testa. Si tratta di dati, per loro natura approssimativi e in continua oscillazione, recentemente divulgati dal capo missione di Medici Senza Frontiere a Lesbo. Condizioni d’igiene similari caratterizzano anche i campi profughi di Chio e Samo, anch’essi enormemente sovraffollati rispetto alle capacità fisiologiche delle strutture di accoglienza.
È esemplificativa una testimonianza diretta che ho avuto da una volontaria impegnata in un servizio di lavanderia per i residenti del campo di Samo. Nel giugno 2019, questa ragazza mi ha detto che dato il carico della domanda e i limitati mezzi della ONG, il loro gruppo di volontari non era in grado di restituire abiti puliti agli utenti del servizio prima di tre mesi dalla loro consegna. Un servizio di lavanderia del genere continua ad avere un senso perché l’acqua, in questi luoghi, è un bene tanto scarso da non lasciare valide alternative all’attesa di mesi per avere indietro una maglietta pulita.
Avendo lavorato a Chio e avendovi conosciuto molti richiedenti asilo e volontari la scorsa estate, so che ad oggi i residenti del campo di quest’isola devono stare in coda per ore persino per ottenere una bottiglia d’acqua da bere. L’acqua corrente non è potabile e i rubinetti per lavarsi sono al momento aperti tra le due e le quattro ore al giorno. La gente fa la fila per ore sperando che l’acqua scorra quando arriva il proprio turno per lavarsi.
La paura di uno scoppio dell’epidemia in questi campi è evidentemente tanto alta quanto fondata; ed è aggravata dalla certa incapacità degli ospedali delle isole di rispondere a un’eventuale massiccia diffusione del contagio. Invero, da ben prima della pandemia, le strutture sanitarie pubbliche delle isole stentano a fornire assistenza ai profughi che pur ne hanno serio bisogno per ragioni diverse dal virus. Nell’estate del 2019, da volontario, ho assistito ai casi più disparati di mancato soccorso sanitario: da quadri clinici estremi come quello di un uomo somalo senza più metà del cranio, in vita per miracolo, lasciato a se stesso perché l’ospedale di Chio non è attrezzato di chirurghi e attrezzature capaci di intervenire in casi del genere; a casi relativamente più comuni pur se molto gravi, come quello di due giovani congolesi con emorroidi esterne di quarto grado doloranti da mesi perché l’ospedale non era al momento capace di intervenire.
In queste circostanze, già alquanto problematiche, si comprende il generalizzato timore che il diffondersi dell’epidemia nei campi si traduca in una moria di profughi.
Le misure adottate per scongiurare la diffusione dell’epidemia nei campi: l’azione dei governi
Ad oggi, secondo comunicazioni ufficiali, il governo greco ha risposto al pericolo chiudendo l’accesso al campo a tutto il personale umanitario non medico; predisponendo appositi spazi per l’isolamento di casi di infezione all’interno dei centri per l’identificazione e l’accoglienza; e disponendo la chiusura di tutti gli uffici del Sistema d’Asilo greco e dell’agenzia europea di Sostegno per l’Asilo.
Questo si è tradotto nella sospensione di tutte le procedure di asilo pendenti in Grecia e nella conseguente interruzione delle attività di intervista individuale per l’esame della domanda di protezione internazionale di ciascun richiedente. Si tratta di misure che prolungano la già estenuante attesa di chi, in molti casi da ben più di un anno, ogni settimana deve recarsi a vedere se sul tabellone delle notifiche è apparso il proprio numero identificativo, a significare che una decisione sul suo caso è finalmente stata presa. D’altra parte, sono provvedimenti necessari a evitare il rischio che il virus penetri nei campi, o dai campi si estenda alle comunità locali.
Questa sospensione è coerente con le misure generali adottate in tutto il paese, dove da metà marzo tutti i negozi, attività ristorative e gli altri tipici luoghi di assembramento sono chiusi per decisione del Governo. E dove dal 22 marzo le persone sono soggette a stringenti restrizioni alla libertà di movimento in modo del tutto simile a quanto disposto in Italia.
L’interruzione delle attività del servizio d’asilo in Grecia, strettamente condizionata al persistere dell’emergenza sanitaria, non deve essere confusa con il provvedimento con cui il Governo greco ha “sospeso” il diritto d’asilo per tutti coloro i quali abbiano raggiunto la Grecia tra il 1° e il 31 di marzo 2020, in risposta all’apertura di Erdogan delle sue frontiere. Queste persone, circa 1.300 secondo i dati che ho potuto reperire, sono state arrestate e condotte in un centro chiuso nell’area di Oropos, a Nord di Atene. Il Governo a marzo ha annunciato che questi migranti verranno rimpatriati nei rispettivi paesi di origine senza concedere loro la possibilità di presentare domanda di asilo. Come evidenziato nell’articolo precedente, ove si desse corso a tale proclamata intenzione, verrebbe commessa una palese violazione della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e del diritto d’asilo europeo.
In aggiunta alle misure predisposte dal Governo di Atene per il contrasto al coronavirus, due consigli municipali nella parte nord-ovest di Lesbo hanno assunto la decisione di designare due strutture abitative abbandonate nei pressi del porto della località Skala Sikamineas come area per la quarantena dei richiedenti asilo nuovi arrivati a partire da aprile, sì da evitare un loro immediato inserimento nel campo di Moria con il conseguente rischio di contagio all’interno dell’intera comunità di profughi.
L’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha affermato di essersi attivato per incrementare la disponibilità d’acqua e fornire articoli per l’igiene, unità mediche e spazi per l’accertamento e l’isolamento di casi di contagio.
Per ora è rimasta inascoltata la richiesta da parte dell’Unione Europea, di UNHCR, di Medici Senza Frontiere e di molte altre associazioni di decongestionare i campi sulle isole trasferendo le persone più vulnerabili – in particolare anziani, malati e minori non accompagnati – in altre strutture.
Alcune briciole di solidarietà vengono offerte da qualche isolato paese dell’Unione europea, che spontaneamente decide di tendere una mano. Il ministro degli Esteri tedesco ha dichiarato che la Germania accoglierà fino a 500 minori non accompagnati. Il Lussemburgo si è mostrato disponibile ad accogliere 12 bambini. L’Austria ha accettato di inviare alla Grecia 181 container da utilizzarsi come spazi abitativi o strutture mediche.
Si tratta di numeri esigui se si rammenta che, limitandosi a dati ufficiali non completi, sulle cinque isole greche ove sono stati insediati i campi profughi vivono 42.000 migranti, di cui il 34% sono minori.
Le iniziative della società civile
Nell’attesa che Governi e istituzioni europee decidano e implementino misure di sicurezza consone all’entità dei rischi, all’interno dei campi c’è chi non perde tempo e pone in atto iniziative indipendenti volte a prevenire il contagio. Nel campo di Lesbo si è costituita una squadra di 50 persone, di svariata nazionalità, impegnata ad istruire la comunità circa l’importanza di misure aggiuntive di igiene. Un gruppo di quattro donne afgane, tra cui una con un passato da sarta, hanno iniziato a produrre gratuitamente mascherine avvalendosi dei macchinari per la cucitura e dell’assistenza operativa fornita dall’associazione “Stand by me Lesvos”. Le mascherine vengono poi confezionate in pacchetti di plastica e distribuite gratuitamente. Una volta utilizzate, potranno essere sterilizzate in acqua bollente e riutilizzate. A Samo, l’associazione “Still I Rise”, impegnata nel fornire programmi di istruzione ai bambini, diffonde consapevolezza tra i più piccoli e fa fare loro dei poster colorati per promuovere misure anti-contagio.
Anche Medici Senza Frontiere – da anni presente nei campi di Lesbo e Samo nel tentativo di supplire all’incapacità del sistema sanitario greco di far interamente fronte alla domanda di assistenza medica proveniente dai nuovi abitanti delle isole – si è organizzata predisponendo nelle proprie sedi un’area separata e protetta per l’accertamento di sospetti casi di coronavirus e l’eventuale trasferimento di pazienti infetti all’ospedale pubblico.
Associazioni e persone sul campo tentano dunque di organizzarsi sfruttando il tempo concesso dalla sinora lenta progressione del virus nella penisola e sulle isole greche, che alla data del 14 aprile 2020 contano un totale di soli 2.145 casi accertati, contro i 159.516 casi constatati in Italia. Il 12 aprile, il numero di contagi registrati non ha superato i nove casi in tutte le cinque isole dove sono insediati i campi profughi; e nessuna infezione ha al momento colpito persone residenti nei campi.
Al contrario, il virus è già penetrato in due campi della penisola. I primi di aprile, nel campo di Ritsona, a nord-est della capitale, 20 persone sono risultate positive al test, sicché l’intera comunità è stata posta in quarantena con il temporaneo divieto assoluto per chiunque di uscire dall’area. Parimenti, è stato sottoposto a quarantena l’insediamento nel paese di Oropos, dove un uomo afgano di 53 anni è risultato affetto dal virus.
Si continua a sperare che in Grecia la “fase 2” non sia la fase di mortiferi campi profughi.
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