di Jacopo Baron, Laura Mattana
Gianfranco Schiavone, già fondatore nel 1991 del Consorzio italiano di solidarietà, segretario dell’ASGI e autore dello studio “Il Diritto alla Protezione” (2010), è stato testimone, per quanto riguarda il diritto d’asilo in Italia, di tutti i cambiamenti succedutisi dall’introduzione della legge Martelli a oggi, e di questi cambiamenti ha potuto saggiare la diversa portata attraverso un costante impegno sul territorio lavorando nella città di Trieste.
Il 30 novembre, a Parma, lei interviene al convegno “Italia terra d’asilo”. Dal sottotitolo si evince che si parlerà anche di proposte concrete per migliorare il sistema d’asilo italiano. Cosa si può dire in proposito, accettato il fatto di una mancata armonizzazione a livello comunitario?
Una precisazione: il convegno si concentrerà solo sul tema dell’aiuto all’inclusione sociale dei titolari di protezione, quindi su quella che possiamo chiamare seconda accoglienza e non sui richiedenti asilo. Detto ciò, la proposta è quella, già fatta in via informale ma molto precisa al governo nelle ultime settimane, di recepire la direttiva qualifiche rifusa negli articoli del capo settimo, in cui si parla appunto degli strumenti di inclusione sociale, e di recepirla attraverso un articolato che preveda delle misure concrete. In particolar modo la misura più importante che è stata suggerita è quella di prevedere un diritto all’accoglienza del titolare di protezione nel sistema Sprar – che comunque è, alla fine, il sistema più funzionante e diffuso – valido per il periodo immediatamente successivo al riconoscimento della protezione. Nella nostra proposta si prevede un anno di accoglienza successiva e che quindi il sistema venga appunto programmato sulla base delle presenze: quindi perché dodicimila, quindicimila, ventimila? A questa domanda non c’è una risposta, perché non esiste un documento di programmazione che dice «c’è bisogno di questi posti sulla base, per esempio, delle presenze dell’ultimo triennio». La programmazione deve essere ancorata a un diritto di accesso e c’è la necessità che quindi, finalmente, si faccia di fatto una modifica anche normativa di questo sistema attraverso il ricevimento della direttiva qualifiche. I segnali che ci sono arrivati fino ad oggi sono segnali molto deludenti, nel senso che sembra emergere una maggiore consapevolezza del fatto che è necessario inserire uno strumento di programmazione ma non sembra esserci la volontà di inserire una misura che preveda questo diritto alla seconda accoglienza, la quale comporterebbe a sua volta la necessità di una previsioneì finanziaria già per il biennio 2014-2015 e quindi una copertura di spesa. Il governo sembra però orientato a recepire il decreto qualifiche senza variazioni di bilancio, e quindi come norma di carattere esclusivamente giuridico-teorico, senza utilizzarla come uno strumento di programmazione e in ciò rinviando, per questa, a successivi strumenti dei quali però non si sa nulla, perché il testo non è ancora disponibile. Ma anche già non vedendo il testo giudico negativamente questa scelta, che anche qualora dovesse introdurre finalmente uno strumento di programmazione rimanda la risoluzione di un problema gravissimo, che è quello dell’abbandono dei rifugiati, a futuri e incerti strumenti.
A Parma lei va anche nel ruolo di coordinatore nazionale della rete Europasilo..
Sì, anche se l’intervento a nome di Europasilo verrà fatto da Luigi Andrini.
Cosa si può dire a proposito di questa realtà che si va configurando a livello nazionale? Prospettive? Interventi a breve termine?
In realtà un programma dobbiamo ancora farlo, però l’obiettivo della rete, come si vede bene dalla carta d’intenti, è quello di collegare le esperienze che condividono i principi presenti nella carta superando quella che è stata la situazione che ha caratterizzato gli ultimi anni, ovvero una grandissima dispersione e frammentazione – quasi un’atomizzazione – delle realtà che si occupano di tutela dei rifugiati a livello territoriale in esperienze anche molto interessanti ma che rimanevano isolate l’una rispetto all’altra. Si cercherà dunque di connettere, attraverso un coordinamento nazionale, realtà diverse.
Un luogo di trasmissione di buone pratiche..
Sì, ma anche un luogo in cui elaborare delle proposte, anche politiche. Purtroppo negli ultimi anni le realtà presenti a livello territoriale hanno agito senza un coordinamento, e lo scopo di Europasilo è di sopperire a questa mancanza sulla base di un piano comune che verrà definito a breve.
Allargando lo spettro della nostra intervista vorremmo parlare del fatto che negli ultimi anni l’attenzione mediatica si è focalizzata soprattutto sugli ingressi dalla sponda sud del Mediterraneo, perdendo interesse per quello che una volta era il confine principale dell’Ue, ovvero il confine orientale con il blocco sovietico e la Iugoslavia. Questa scelta dei media è giustificabile dal punto di vista statistico? Cosa si può dire oggi sulla geografia degli arrivi? È davvero cambiata così tanto?
Ci sono due buoni motivi per cui l’attenzione viene concentrata su Lampedusa: il primo è dato dalle modalità drammatiche dell’arrivo e dal rischio elevatissimo che questa migrazione forzata comporta, per cui gli arrivi via mare attraverso il canale di Sicilia richiamano sicuramente una doverosa, specifica attenzione. Il secondo motivo è dato dal fatto che comunque il maggior numero di domande d’asilo in Italia viene effettivamente presentato, a tutt’oggi, da persone che sono arrivate via mare. La percezione non è dunque infondata. Questo occulta però, sicuramente, il fatto che c’è un numero elevato di persone che arriva in Italia via terra, e che continua a utilizzare il paese come un territorio di transito. Queste persone possono poi incorrere in due situazioni diverse: ci sono quelle che vengono fermate ma ciononostante non presentano domanda d’asilo – divenendo probabilmente, in questo modo, futuri “casi dublino” – e quelle che non vengono affatto fermate perché il confine orientale in Italia non c’è più per definizione e perché la zona è molto ampia, per cui è possibile anche non essere visti. Ad ogni modo, la somma di queste due situazioni coinvolge un numero elevato di persone. Ovviamente il dato degli “invisibili” statisticamente non esiste, mentre il dato dei fermati – e magari espulsi, ma la cui espulsione non è di fatto mai avvenuta – potrebbe essere ottenuto attraverso quello delle nazionalità. Un esempio dalla mia esperienza pratica: nell’ultimo mese sono stati fermati dalla polizia di frontiera di Trieste circa quaranta eritrei: di questi, non uno ha fatto domanda d’asilo. Addirittura molti di loro hanno tranquillamente “chiesto” un decreto d’espulsione, dicendo di darglielo pure, tanto è un pezzo di carta, così poi potevano andarsene. La polizia non sapeva cosa fare: da un lato l’espulsione è, vista la situazione, un provvedimento irragionevole e illegittimo, ma dall’altro andava considerato che la persona non voleva fare domanda d’asilo.
Ma in questo caso la persona non fa domanda d’asilo nonostante poi gli venga detto che, per via della Convenzione di Dublino, comunque…
Non la fa per due ragioni: in primis, vuole tentare. Vuole tentare e non vuole essere tra coloro che se magari avessero tentato sarebbero riusciti a.. eccetera. La seconda è – e di fatto è un aspetto della stessa questione – che dublino è un sistema talmente complicato e farraginoso che non è affatto vero che tutte le persone vengano restituite.
Quindi di fatto si spera che Dublino non funzioni, o che succeda quello che era successo nel caso M.S.S. contro Belgio e Grecia…
Sì, c’è anche la possibilità di impugnare la decisione, di invocare la non sicurezza del paese, c’è la speranza che se hai comunque parenti si possa provare a chiedere l’applicazione della clausola umanitaria… ognuno se la vuole giocare, sostanzialmente. Ad ogni modo, se spostiamo l’attenzione dall’Italia all’Europa vediamo che la maggior parte delle domande d’asilo non sono derivanti dagli arrivi via mare: l’ingresso in Europa del richiedente asilo continua ad essere un ingresso fatto prevalentemente via terra. In questo caso le persone o arrivano e chiedono subito protezione o arrivano ad altro titolo – turismo, per esempio –, oppure arrivano da paesi esentati da visto e chiedono protezione una volta regolarmente presenti, quindi sia che l’ingresso sia regolare o meno la maggior parte degli arrivi dei richiedenti asilo in Europa è comunque terrestre. La situazione si inverte per l’Italia, questo è vero: la nostra posizione nel mediterraneo fa sì che i nostri arrivi siano prevalentemente via mare, tanto da occultare il resto.
E’ cosa notoria come la politica, in Italia, abbia sempre confuso, eccezion fatta per l’art. 10 della Costituzione, tra asilo e immigrazione: tenendo presente questa cornice, che significato assume per lei l’allargamento dello Sprar? Può essere considerato un primo passo verso una ridefinizione complessiva del diritto d’asilo in Italia o si tratta di una sorta di “anestesia sul tema”, una misura-tampone per arginare le difficoltà emerse negli ultimi anni?
I rischi connessi a un aumento così repentino dei numeri [da 8.000 a 16.000 posti] del sistema potrà causare, nel 2014, anche situazioni di grande confusione, con progetti che probabilmente non risponderanno agli stessi standard. Quindi io mi immagino una situazione molto differenziata, con il rischio concreto di avere anche dei progetti per così dire “targati Sprar” in realtà non rispondenti ai requisiti – e questo potremo saperlo solo ex post – o addirittura situazioni sconfinanti nel malaffare, come purtroppo è già successo nel caso – diverso – dell’emergenza nord africa. Detto ciò e sottolineato che dietro a questo allargamento, come del resto dietro a tutti gli allargamenti repentini, vi sono dei rischi, non ho comunque dubbi sul fatto che sia una scelta positiva, che va nella direzione che abbiamo sempre auspicato. Il punto è che questa scelta viene praticata senza una piena consapevolezza politica: a tutt’oggi nessuna dichiarazione è stata resa da esponenti pubblici di livello governativo sulle sue ragioni profonde. Forse queste ragioni sono da ricercarsi soltanto nel fatto che il sistema Sprar ha dimostrato di essere più flessibile e più veloce di quanto ci si immaginasse e dunque questa decisione sia, alla fine, un modo agevole per reperire posti.
Probabilmente il Ministero dell’interno alla fine ha scoperto che, diversamente da quel che si pensava, è più facile trovare dei posti di accoglienza che mancano in questo modo che non aprendo CARA o centri simili la cui individuazione è difficile, solleva proteste sul territorio e che insomma porta con sé una serie di complicazioni molto elevate, e che quindi l’accoglienza diffusa può essere un sistema più pratico. È dunque possibile che le motivazioni dietro a questa scelta siano sostanzialmente di carattere gestionale senza che vi sia stata però una grande riflessione sui modelli dell’accoglienza o che vi sia stato in realtà un avvio di riflessione in questa direzione magari non detto, non esplicitato per ragioni politiche, di visibilità, o di un misto delle due cose. Ecco, certo che, ripeto, se noi andiamo a vedere se ci sia una consapevolezza crescente questa non è stata comunque manifestata in alcun modo.
Essendo poi un servizio volontario dei comuni non è comunque detto che, data la disponibilità all’ampliamento, i 16.000 posti divengano effettivi…
Sì, non è detto che questi numeri si raggiungano e non è detto che siano ben distribuiti. Tutto ciò a riprova del fatto che questo allargamento non è stato accompagnato da un lavoro sul territorio che coinvolga anche le prefetture quali appunto organi periferici del governo per andare, ad esempio, a fare un monitoraggio della situazione, o stimolare province assenti. Ad esempio ci sono intere province del Piemonte che continuano a non presentarsi: ecco, non hanno ricevuto nessun input dal sistema centrale. Quindi questo ci dice che dietro non c’è un disegno molto strutturato.
Quindi il provvedimento assume quasi l’aria di una delega, una sorta di rinuncia del governo centrale alla gestione del problema…
Sì, sì. Come se si dicesse: «proviamo con lo Sprar, vediamo se va». Ancora una volta io non vedo, dietro a queste modifiche, una programmazione consapevole. Anche se, ripeto, siccome anche dalle situazioni non programmate possono nascere esperienze interessanti, pur con tutti i rischi è una direzione che ritengo positiva.
Un’ultima precisazione: di recente l’ASGI si è espressa criticamente su di un concetto del quale oggi parlano un po’ tutti, ovvero i «corridoi umanitari». Potrebbe spiegare la motivazione alla base di questa posizione?
Ci siamo espressi criticamente non certo perché non vogliamo approfondire questo argomento, anzi: vorrei sicuramente evitare equivoci, su questo. Il tema di come “avvicinare” la protezione ai rifugiati fuori dai confini della giurisdizione italiana od europea in generale è un tema che va approfondito di più perché i viaggi della disperazione non possono essere guardati con indifferenza o semplicemente aumentando i soccorsi, anche se quest’ultimo aspetto rimane fondamentale. È perciò necessario aumentare i soccorsi e fare quanto è possibile per intervenire di più nelle aree internazionali ed è giusto interrogarsi su ciò che avviene nei paesi di transito, prevedendo di attivare degli strumenti che oggi non esistono. Quello che semplicemente noi diciamo è che mettere in atto queste nuove strategie è complesso e le formule che sono state fino ad ora avanzate sono state essenzialmente degli slogan, abbastanza vuoti se si va poi a vedere cosa vogliono dire, al netto della nozione di «reinsediamento» – che è abbastanza definita ma non praticata, almeno dall’Italia –. Quindi al di là del fatto che sicuramente – e su questo siamo favorevoli – si devono cominciare a praticare di più politiche di reinsediamento anche da parte dell’Italia, che non le ha mai fatte, altre misure, tra le quali ad esempio la possibilità di presentare domanda alle ambasciate, non hanno funzionato molto nei pochi paesi che le avevano praticate e quindi va capito come eventualmente riprendere questo tema per renderlo efficace, perché altrimenti si rimane agli slogan vuoti o peggio. Peggio perché, se la domanda d’asilo viene presentata ed esaminata anche soltanto in una prima fase in un paese terzo, la questione della tutela di queste persone si fa rilevantissima: in quale contesto verrebbero esaminate queste domande? Da chi? Con quali strumenti di tutela? Con quali mezzi di ricorso? Ora, l’esperienza del passato ci dice che quando sono state presentate delle proposte di esternalizzazione delle procedure di asilo queste sono state spesso associate non a un aumento della protezione ma a una sua diminuzione, istituendo una sorta di pre-esame o addirittura un esame intero della domanda dentro quadri che sono stati sempre molto confusi e poco inclini al riconoscimento della protezione. La nostra preoccupazione è quella, pur nell’apertura del dibattito, di mettere in guardia contro facili slogan da un lato e da possibili usi strumentali di queste idee – ancorché avanzate con le migliori intenzioni possibili – dall’altro.
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