Voci dalla Tunisia che cambia, tra voglia di fuggire e delusioni italiane. Dalla Tunisia un servizio di Max Hirzel.
di Max Hirzel [ http://blobreport.blogspot.com ]
“Non cambia nulla, anzi è peggio, il turismo è fermo, qui non ci sono prospettive”. Siamo a Tozeur, sud Tunisia, Youssef è un giovane harraga (chi viaggia senza documenti ndr) rimpatriato dall’Italia a fine agosto dopo un mese passato tra un centro e l’altro: Lampedusa, Palermo e Gradisca, poi ancora a Palermo per l’imbarco sul volo, manette ai polsi e un poliziotto per lato. Tanto si è detto e scritto con troppo stupore quando subito dopo la caduta del regime i giovani della prima ondata, peraltro non più di 24/25mila, sono approdati sulla costa italiana, la maggior parte diretti in Francia. Come mai ora che sono liberi se ne vanno? Intanto proprio perché liberi alcuni hanno approfittato (loro come i passeurs che ci lucrano) del momento di assenza di controlli – quelli previsti dai precedenti accordi tra i due Paesi – per cercare qualcosa altrove, una vita, un lavoro, un parente, un futuro. In secondo luogo per i motivi per cui altri li hanno seguiti in questi mesi, coloro che giunti dopo il fatidico 5 Aprile – quindi senza diritto al permesso di soggiorno concesso ai primi – vengono trattenuti e respinti al mittente.
Disoccupazione elevatissima e blocco del turismo, ma anche disillusione riguardo alla rivoluzione e a possibili cambiamenti. Youssef lavora in una boutique per turisti ora troppo vuota, siamo a quattro giorni dal voto del 23 ottobre: “secondo me non cambierà nulla, io non ci vado a votare… al potere ci saranno sempre gli stessi, tra due anni saremo punto e a capo”. Chi parte o desidera farlo sono i ragazzi del sud abbandonato a sé stesso, lontano dalla capitale più dei kilometri che li separano, il sud deserto del Djerid fino alla costa di Djarzis e al cofine libico, la zona operaia di Gafsa, i desolati confini con l’Algeria di Kasserine e dintorni o le cittadine in mezzo al nulla come Sidi Bouzid, là dove è scoccata la scintilla della rivoluzione. Ma anche i ragazzi dei quartieri popolari di Tunisi, più di altri erano tutti loro in piazza, come tra loro sono i martiri e i feriti della rivoluzione. Quella che ora si vedono sottrarre davanti agli occhi. In un piccolo garage trasformato in café-theatre popolare letteralmente aperto al quartiere di Omran – la rivoluzione è qui certo più che nelle schermaglie tra i partiti – un gruppo di giovanissimi si sfoga: “nemmeno uno dei candidati era in piazza in quei giorni e tutti si riempiono la bocca della loro rivoluzione, intanto noi siamo dimenticati e sempre senza uno straccio di lavoro”. Ecco chi parte. Senza trovare appigli sull’altra sponda. “Conoscevo gli italiani dalla mia boutique, turisti simpatici e gentili, ora ho conosciuto un’altra Italia, nei centri i poliziotti insultano e ti picchiano, anche i minori, senza motivo. Chiedi un medico e ti dicono, ‘dormi, non rompere’, che bisogno c’é? Anche gli operatori ti trattano male”. Youssef dice di aver fatto domanda d’asilo all’arrivo, ma non ne ha saputo più nulla, “non ne voglio più sapere dell’Italia, non ho più nemmeno voglia di parlarci con gli italiani”. Non so se le parole trascritte rendano l’idea dell’amarezza di Youssef, la voce e lo sguardo senz’altro sì.
Conclude con un’osservazione che dovrebbe far pensare, dall’altra parte del mare: “noi qui accogliamo tutti, pensa al milione di profughi dalla Libia, ma non solo. Qui a Tozeur ci sono degli italiani, hanno la casa qui, sono gay, vengono per far sesso con giovani ragazzi di qui, se invece veniamo noi siamo trattati così. Ho dimenticato l’Italia, non mi piace”.
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