Inno ha il sorriso franco e aperto e un borsalino in testa che lo rende subito simpatico. Ma il suo buon umore non deve ingannare: è la sua forza, e ne ha avuto un gran bisogno per arrivare fino qui, oggi, a parlare con noi. La sua vita fino al 2011 è stata una vita “normale”. Non particolarmente facile visto che ha lasciato il Delta State, in Nigeria, per andare a lavorare in Libia. Ma lì il lavoro è sicuro, lo stipendio accettabile: un immigrato come tanti, se non fosse che, nel marzo del 2011, il suo mondo, le sue certezze vengono sconvolte dalla rivolta e, successivamente, dai bombardamenti NATO dell’operazione “Odissey Dawn” contro il regime di Gheddafi. Inno non può fare altro che fuggire e la bussola indica nord. Il passaggio a Lampedusa avviene come per tante migliaia di persone in quelle settimane, un barcone che lo lascia di fronte a un’isoletta del Mediterraneo che, però, è Italia, Europa.
Work work work!
E’ in Italia che si rende conto che la sua situazione è cambiata: non più un immigrato-lavoratore, ma un uomo in fuga che deve fare i conti con i documenti, le domande, le impronte digitali e, soprattutto, con tutto quell’intricato sistema di “accoglienza” che è stato messo in piedi in Italia per la cosiddetta “Emergenza Nord Africa”. Ha dovuto imparare sigle strane “Cie, Cara, Sprar” e parole all’apparenza simili, ma che da un punto di vista giuridico ti ingabbiano in condizioni che possono cambiare la tua vita per sempre: permesso di soggiorno per motivi umanitari, richiesta di asilo politico, protezione sussidiaria. Lui, come tanti, finisce in una di queste parole, scritte sul documento che è il suo giubbotto di salvataggio: protezione umanitaria. Con questa parola appiccicata addosso passa dalla Sicilia alla Puglia, ma accanto a questa definizione giuridica, nella sua testa, come un martello, inizia a farsi strada un’altra parola, che è il senso di una nuova vita fatta di dignità e futuro: “work, work, work”. La ripete quasi ossessivamente nei suoi racconti: «Io non voglio assistenza, io voglio lavorare». Forse per istinto, o forse perché le grande aziende che lui ricordava vicino alla sua città del Delta State erano tedesche, Inno punta ancora la bussola a nord. Berlino, Germania. Il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari gli permette di arrivare fino a lì.
Inno si aggrappa al suo sorriso per non cedere a dolori ancora più forti: in Nigeria ha lasciato un figlio, da quattro anni non lo vede. La madre, la sua compagna, non ce l’ha fatta ad aspettare ancora e ancora senza sapere fino a quando e si è costruita una nuova vita. Lui lo ripete: «Voglio che sia molto chiaro: noi del 2011, noi della Libia, non siamo rifugiati qualunque. Molti di noi non avevano nessuna intenzione di passare il mare. Stavamo bene. È per via dei bombardamenti NATO che ho perso la mia famiglia». Dopo questi brevi scatti, il tono di Inno torna subito sereno: se la sua bussola indica nord, il suo sorriso non può che indicargli il futuro, il domani, la speranza. «E così arrivo a Berlino, senza un contatto, senza sapere dove sarei finito a dormire. Camminando per la strada vedo delle tende in un parco e persone con la pelle come la mia. Fratelli, penso, persone come me. Un posto in cui dormire gratis». Si trova ad Oranienplaz e quando alza gli occhi vede uno striscione che lo fa sentire a casa o, almeno, qualcosa di simile a una casa “Lampedusa in Berlin”. «Capisci? Lampedusa in Berlin: ero io! Era il mio posto nel mondo». Quello che Inno scopre presto è che non si trova in un accampamento estemporaneo, un posto in cui un gruppo di persone in fuga dalla guerra libica ha deciso di accamparsi, così, a caso.
Noi restiamo qui
Oranienplaz è la piazza di Berlino dove hanno deciso di vivere e condurre la loro lotta. Una lotta per poter stare a vivere dove hanno scelto di vivere e non dove decidono carte, direttive e impronte digitali. “We are here and we don’t go back”: “Siamo qui e non torniamo indietro”. Quella lotta diventa la sua lotta. E subito, allora, quella parola ricomincia a martellargli la testa “Work, work, work”. Spiega: «Trovare lavoro a Berlino non è difficile: ne ho fatti tanti, ma tutti in nero».
La lotta di Oranienplaz ha buon fine: sono in circa in 300 che provengono dall’ “Emergenza Nordafrica” e il Senato di Berlino ha trovato il modo perché possano rimanere dove hanno scelto di stare. Per quanti hanno fatto domanda d’asilo politico in Germania la permanenza è un po’ più complicata, ma con un avvocato e attraverso procedure di ricorsi forse ce la faranno. Per Innocent è più facile, lui può tornare a Berlino e stare lì perché non aveva fatto richiesta d’asilo politico. E perché avrebbe dovuto? «Io sono un lavoratore».
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