La giovane rifugiata di origini iraniane ha eliminato in un match di taekwondo la due volte campionessa olimpica Jade Jones. Con altri 28 atleti, Alizadeh fa parte del Refugee Olympic Team che sta partecipando alle Olimpiadi di Tokyo. La portabandiera della squadra Yusra Mardini, siriana: “Lo sport mi ha salvato la vita”.
Si chiama Kimia Alizadeh. Rifugiata iraniana, oggi vive e si allena in Germania. E ieri a Tokyo ha eliminato la due volte campionessa olimpica Jade Jones in un match di taekwondo femminile, anche se alla fine ha mancato di poco la medaglia di bronzo, sconfitta dalla giovane turca Kubra Hatice Ilgun.
Nel 2016, ancora per il suo Paese, Kimia aveva già vinto un bronzo a Rio de Janeiro e nel 2014 un oro alle Olimpiadi giovanili di Nanchino.
Kimia Alizadeh è una dei 29 atleti del Refugee Olympic Team del CIO che partecipa alle Olimpiadi di Tokyo. Ben nove di loro sono siriani, cinque iraniani, quattro sud-sudanesi e tre afghani. Gli altri Paesi d’origine sono l’Eritrea, l’Irak, la Repubblica del Congo, la Repubblica Democratica del Congo, il Camerun, il Sudan e il Venezuela.
Nel percorso verso “Tokyo 2020” (la manifestazione olimpica è stata rinviata dall’anno scorso a queste settimane), il Comitato olimpico internazionale ha sostenuto con 56 borse altrettanti giovani rifugiati promettenti in collaborazione con l’UNHCR, per giungere poi alla selezione di 29 atleti.
Alla cerimonia di apertura i portabandiera del Refugee Olympic Team (nelle loro mani un vessillo bianco decorato con i cinque anelli olimpici) sono stati la nuotatrice Yusra Mardini, originaria della Siria, e il maratoneta Tachlowini Gabriyesos, fuggito dall’Eritrea. La squadra ha ricevuto il benvenuto ufficiale nel discorso del presidente del CIO Thomas Bach: «Cari atleti rifugiati, con il vostro talento dimostrate quale risorsa i rifugiati rappresentino per la società».
Gabriyesos, 23 anni, è fuggito dalla guerra in Eritrea quando ne aveva 12. Ha raggiunto Israele passando per il deserto (a piedi), il Sudan e l’Egitto. Ora vive a Tel Aviv, dove corre con una squadra locale.
Ha iniziato mettendosi alla prova sui tremila, cinquemila, 10 mila metri e con la mezza maratona. Poi, a marzo, ha concluso la sua seconda maratona ufficiale in 2 h 10′ 55”, al di sotto del tempo di qualificazione per la maratona olimpica.
“Lo sport mi ha salvato la vita”
Per Yusra Mardini, invece, Tokyo 2020 è già la seconda Olimpiade. Anche lei ventitreenne, è arrivata in Giappone per i 100 metri a farfalla. Originaria di Damasco, aveva già rappresentato la Siria in competizioni internazionali.
Ma nel 2015, con l’aggravarsi della guerra civile nel suo Paese, è partita con la sorella verso l’Europa. Dalle coste della Turchia le due ragazze si sono imbarcate su un gommone per una traversata di 10 chilometri verso un’isola greca. Quando il motore del battello, stracarico di 20 persone, è andato in avaria, sono state loro due a entrare in acqua per alleggerire il carico e tirare il gommone a riva.
A piedi e in autobus Yusra ha poi raggiunto Berlino, dove oggi vive. Come altri atleti, ha testimoniato come lo sport le abbia dato un senso e una direzione nel periodo di adattamento alla nuova vita in Germania.
«Racconto la mia storia perché voglio che le persone capiscano che è stato lo sport a salvarmi», ha detto.
Per lei, che è “ambasciatrice di buona volontà” dell’UNHCR, essere a Tokyo è un’occasione per testimoniare che i milioni di rifugiati che vivono nel mondo sono «persone normali con i loro sogni». Ma anche «per ricordare a tutti i rifugiati che vivono nei campi: hanno bisogno del nostro aiuto».
Le prime Olimpiadi che hanno visto la partecipazione di una rappresentanza di rifugiati sono state quelle di Rio de Janeiro, cinque anni fa, con 10 atleti.
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