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Con un gruppo di 23 rifugiati, la ricerca “Abitare e relazioni sul territorio” ha esplorato le percezioni e le situazioni di vita in diverse realtà abitative e territoriali del Piemonte. E ancora una volta, fare ricerca su rifugiati e migranti è servito a fare ricerca (anche) su di noi, anzi per noi italiani…

Voglia di casa: un bambino siriano esplora le vie del paese del Sud Italia che lo ha accolto con la famiglia (foto Unhcr 2013).

«Viene da chiedersi se il bisogno di relazioni di vicinato più significative sia un’esigenza dei soli rifugiati, o se la questione da loro posta offra uno spunto di riflessione e un’occasione per “rilanciare” relazioni di vicinato e di collaborazione reciproca più significative per tutti». Ancora una volta, a quanto pare, fare ricerca su rifugiati e migranti significa fare ricerca su di noi, anzi per noi italiani. Per i diritti (anche) nostri, per servizi migliori e per rapporti sociali decenti (anche) fra di noi…

La ricerca Abitare e relazioni con il territorio , realizzata in Piemonte nell’ambito dei progetti “Non solo asilo Mappe” e “Non solo asilo 4” con fondi Fer, ha intervistato 23 rifugiati/beneficiari di protezione internazionale sui loro percorsi d’arrivo negli attuali luoghi di residenza (Torino, Asti, Ivrea, Biella e Acqui Terme) e sul loro attuale contesto di vita, indagando sia lo spazio abitativo sia le interazioni con il territorio.

Piuttosto composita la provenienza del campione (soprattutto cittadini somali, sudanesi, afgani, eritrei e libici).  Oltre la metà è composta di giovani di 20-30 anni, mentre tutti sono in Italia da almeno un anno: 10 rifugiati, il gruppo più numeroso, da un periodo di uno-tre anni. 

… E dopo il Cara e lo Sprar?

17 degli intervistati sono passati per l’esperienza dei Cara e 12 per progetti dello Sprar; 16 hanno trovato sistemazione in appartamenti condivisi, 11 in appartamenti da soli o con le famiglie, nove in comunità, otto in dormitori,  cinque in case occupate,  due presso famiglie italiane e uno in una residenza universitaria; ma tre hanno subito i Cie, e ancora tre sono passati per un periodo da senzatetto sotto i ponti, in strada, in giardini pubblici o stazioni.

«Risulta evidente come i Cara e gli Sprar nel primo periodo di permanenza in Italia – commenta il rapporto di ricerca – siano stati tappe condivise dalla quasi totalità degli interlocutori. Al contrario, le molteplici tipologie di abitazione sperimentate successivamente rendono evidente la mancanza di un programma abitativo strutturato e uniforme a livello nazionale».

«La maggior parte di coloro che sono rientrati in un progetto di accoglienza hanno avuto la possibilità per almeno sei mesi di vivere in un alloggio condiviso o in comunità destinate a ospitare i migranti, messo a disposizione dall’ente di riferimento. Chi invece è stato escluso da tali
progetti o nel momento in cui ne è uscito non era ancora autonomo è dovuto ricorrere a soluzioni emergenziali, come i dormitori, gli stabili occupati oppure addirittura i parchi o sotto i ponti. Situazioni che a volte si sono protratte nel tempo finendo per diventare le loro situazioni abitative stabili e permanenti.».

Anche i rifugiati che hanno usufruito di un progetto di accoglienza, «al termine del periodo di assistenza economica raramente hanno avuto le risorse necessarie per potersi garantire una sistemazione dignitosa, dovendo così ricorrere a soluzioni d’emergenza». In alternativa, «la temporanea ospitalità offerta da altri rifugiati si è dimostrata una risorsa per ovviare a queste situazioni di difficoltà».

Sette rifugiati su 23, quasi un terzo, vorrebbero trasferirsi in Paesi europei (Francia, Inghilterra, Norvegia, Svezia, Svizzera e Olanda) dove i servizi d’accoglienza sono migliori che in Italia, anche se conoscono i meccanismi del regolamento “di Dublino”.

Autonomia, sì grazie

Fra i «nodi cruciali» emersi a conclusione dell’indagine: numerosi intevistati hanno sentito il peso dei “tempi e orari” nelle accoglienze collettive. Se essere accolti provvisoriamente in una famiglia italiana offre, tra l’altro, un prezioso “supporto logistico” per affrontare le complicazioni della vita quotidiana nel nostro Paese, «l’eccessiva presenza degli adulti italiani nelle scelte personali è stata indicata come invasiva e in contraddizione con le precedenti esperienze di vita e di migrazione gestite in maniera autonoma». Invece, «la convivenza con persone migranti o connazionali è stata indicata come una buona soluzione abitativa, al contrario di coloro che hanno vissuto da soli, esperienza che secondo molti intervistati non favorisce l’autonomia individuale ma anzi genera isolamento».

La ricerca Abitare e relazioni con il territorio è stata curata da due antropologhe culturali e due studentesse di Antropologia culturale e Lingue, rispettivamente Cristina Molfetta, Paola Sacchi, Chiara Costa ed Erika Lavolpe.

Allegati

Abitare e relazioni con il territorio: il testo (2013, file .pdf)

Abitare e relazioni con il territorio: le slide di sintesi (2013, file .pdf)

 

 

 

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