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Turchia Paese sicuro? Primo anno dell’accordo con l’UE: dati, fatti, storie

A un anno dalla firma e dall’entrata in vigore, l’UE considera l'”accordo” con la Turchia del 18 marzo 2016 un modello da replicare in altri Stati. Ma la Repubblica Turca si è confermata un Paese tutt’altro che sicuro per richiedenti asilo e rifugiati, anche se con le procedure volute dall’Unione Europea si è arrivati, tra l’altro, a respingere nel suo territorio vari richiedenti asilo in violazione degli obblighi di “non refoulement”. Dati, fatti e storie al di là delle opinioni e dei commenti che si sono accavallati sui media in queste settimane.

Nel campo rifugiati di Souda (Chios, Grecia), novembre 2016 (foto G. Moutafis/Amnesty International).

 

In fuga dalla Siria verso l’Irak, e poi dall’Irak, in una zona minacciata dall’ISIS, ancora in fuga verso la Turchia. Poi le acque dell’Egeo, su una barca in rotta verso l’Italia (sì, l’Italia, cercando di evitare la Grecia) con una novantina di altri rifugiati e migranti… Ma il battello il 9 ottobre 2016 è intercettato al largo di Milos. E l’odissea del signor Haji, con la moglie e quattro figli piccoli, prende una piega insieme umiliante e grottesca.

Il 14 ottobre questa famiglia siriana è trasferita a Leros, dove viene registrata. Il signor Haji dichiara di voler presentare domanda di protezione, intenzione che più tardi sarà confermata dallo stesso centro di accoglienza e identificazione nell’isola. «Vi trasferiamo ad Atene», gli dicono…

“Abbiamo sofferto abbastanza”

Il 20 li portano a Kos, li fanno salire su un aereo con altri quattro profughi/migranti. Due ore dopo, invece che ad Atene il gruppo atterra ad Adana, Turchia meridionale, in violazione della normativa ellenica e internazionale sul principio di non refoulement.

Sull’aereo ci sono anche alcuni agenti dell’agenzia Frontex. Comunque, Haji e la famiglia vengono trasferiti nel vicino capo di Düziçi. «Quando ho visto la bandiera turca all’aeroporto i miei sogni sono andati in frantumi», ha detto Haji a operatori di Amnesty International.

Ancora alcuni giorni di inutile detenzione a Düziçi, poi la famiglia viene liberata con un permesso di soggiorno temporaneo. Ma è abbandonata a se stessa, e dopo alcune settimane non vede altra alternativa che ritornare in Irak.

Ha riferito ancora il signor Haji, contattato ormai ad Erbil, nel Kurdistan irakeno, all’inizio di questo 2017: «Uno dei miei figli ha problemi respiratori, in Turchia non riuscivo a trovare lavoro, non potevo permettermi le spese necessarie e non mi sentivo al sicuro. Sono sconvolto per come ci ha trattato l’Europa. Pensavamo che ci avrebbe accolti perché fuggivamo da una guerra. Abbiamo sofferto abbastanza, adesso».

Produce anche vicende come questa l’“accordo” UE-Turchia (ma è più corretto definirlo una mera “dichiarazione”, nonostante il peso che ha su centinaia di migliaia di vite) sottoscritto ed entrato in vigore un anno fa e che oggi l’Europa vede come un modello da replicare con altri Paesi.

Due milioni e 900 mila

Dal 20 marzo 2016 alla fine di febbraio di quest’anno, secondo dati della Commissione Juncker sono stati espulsi in Turchia dalla Grecia poco meno di 1.500 «migranti», per domande d’asilo respinte, ritirate o non presentate.

Sia le autorità greche che quelle dell’UE continuano ad affermare che tutte le richieste d’asilo presentate in territorio ellenico sono valutate secondo le regole. «Chiunque sia arrivato sulle isole greche dopo il 20 marzo ha il diritto di chiedere asilo. Ogni domanda è esaminata individualmente», ripete la V relazione della Commissione UE sui Progressi in merito all’attuazione della dichiarazione UE-Turchia dell’inizio di marzo 2017.

Ma oltre al caso della famiglia siriana deportata ad Adana c’è (almeno) quello di 202 espulsi in Turchia da Lesbo e da Chio il 4 aprile 2016: se per la Commissione UE nessuno aveva chiesto protezione, è poi emerso che 13 di loro avevano chiesto di presentare domanda d’asilo, che però non era stata registrata nel caos che in quelle settimane regnava a Chio.

Però c’è dell’altro. Perché i fatti hanno confermato come uno dei principi su cui la “dichiarazione” si fonda, quello che la Turchia sia un “Paese sicuro” per richiedenti e rifugiati, sia una costruzione fittizia.

Fra 2015 e 2016 Amnesty ha documentato casi di rimpatri forzati dalla Turchia in Paesi in stato di conflitto armato come la Siria, l’Irak e l’Afghanistan.

Nonostante i progressi degli ultimi anni il sistema d’asilo di Ankara, anche per responsabilità della comunità internazionale, non è in grado (non lo sarà mai) di accogliere dignitosamente la grande maggioranza dei rifugiati presenti nei suoi confini (2 milioni e 900 mila oggi i soli siriani). Un solo dato: sono ancora tagliati fuori dall’istruzione oltre il 40% dei bambini e ragazzi rifugiati siriani in età scolare.

Vi sono le prove che rifugiati Siriani (fra cui anche minori) che avevano accettato volontariamente di essere reinviati dalla Grecia in Turchia, in quest’ultima hanno subito varie violazioni, fra cui la detenzione arbitraria e il mancato accesso a cure sanitarie.

Infine, per i primi mesi del 2016 (ma vedi anche questa testimonianza) sempre Amnesty ha denunciato «episodi di respingimenti illeciti in Siria e sparatorie, alcune delle quali fatali, ai danni di persone bisognose di protezione, da parte delle guardie di frontiera turche».

Allegati

Turchia “Paese sicuro”? (una scheda a cura di Vie di Fuga e Migrantes dal Rapporto protezione internazionale 2016, novembre 2016, file .pdf)

La V relazione della Commissione Europea sui Progressi in merito all’attuazione della dichiarazione UE-Turchia (marzo 2017, file .pdf, in inglese)

“Dichiarazione” UE-Turchia, un anno dopo: la situazione in Grecia e le espulsioni in Turchia nel rapporto A blueprint for despair. Human Rights Impact of the EU-Turkey Deal (Amnesty International, febbraio 2017, file .pdf, in inglese)

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