di Gabriella Gaetani
Sui 12 giovani partecipanti alla seconda edizione del laboratorio Cinemaèreale, quattro sono rifugiati. L’idea è nata dopo che uno dei “corti” realizzati nel 2015 aveva scelto come tema i giocatori pakistani e bengalesi di cricket ad Ancona: quest’anno si è così deciso di fare un passo in più, coinvolgendo direttamente i ragazzi stranieri e dando loro la possibilità di raccontarsi.
Nel mese di marzo, ad Ancona, è partito un laboratorio di cinema aperto anche ai rifugiati. Ormai alla seconda edizione e aperto a tutti, mira a fornire un’occasione di fare cinema in senso pratico.
Il laboratorio Cinemaèreale è organizzato dall’associazione di promozione sociale Nie Wiem e sostenuto da “Corto Dorico” e dal Comune di Ancora, con Anolf Marche, ente a cui l’Amministrazione comunale ha affidato la gestione del progetto SPRAR “Ancona città d’Asilo”.
Il laboratorio ha l’obiettivo di “raccontare” la vita del territorio delle Marche e in particolare di Ancona. Nella prima fase i partecipanti vengono accompagnati nello sviluppo di brevi documentari che, nella seconda fase, servono da base per la creazione di un corto di finzione.
Il cortometraggio girato a conclusione del laboratorio verrà presentato nell’ambito del film festival “Corto Dorico 2016”.
Se in città si gioca a cricket
Vie di Fuga ha intervistato i curatori del laboratorio, Emanuele Mochi e Paolo Paliaga, e Francesca Ciafrè che si occupa dell’organizzazione.
Com’è nata l’idea di inserire i migranti, e in particolare i rifugiati, all’interno del laboratorio? Emanuele Mochi spiega che l’iniziativa è frutto della precedente esperienza del 2015.
Uno dei documentari/cortometraggi dell’edizione passata, infatti, aveva come tema i giocatori pakistani e bengalesi di cricket ad Ancona. I ragazzi che l’avevano realizzato erano entrati in stretto contatto con i giocatori, e il documentario aveva dato l’opportunità di lavorare con i ragazzi pakistani e bengalesi. «Si era creata una bella situazione», commenta Mochi.
Si è così deciso di fare un passo in più, cercando di coinvolgere direttamente i ragazzi stranieri e dando loro la possibilità di raccontarsi. Si è deciso, cioè, di creare interazione e integrazione tra realtà che hanno contatti molto di rado.
“Un conto è sentire le loro storie al telegiornale…”
Oggi Cinemaèreale è frequentato da 12 persone di età compresa fra i 25 e i 65 anni. Quattro di loro sono rifugiati fra i 25 e i 30.
Benché si sia rivelato fin dall’inizio un’«esperienza straordinaria», come commenta Paolo Paliaga, ci si è resi conto di alcuni ostacoli, come quello della lingua. I ragazzi rifugiati, infatti, non parlano bene l’italiano e non sono abituati a partecipare a laboratori come Cinemaèreale. Si è reso quindi necessario imparare a gestire una situazione nuova.
Nel corso dei mesi gli organizzatori, che non si erano mai occupati di questioni sociali, hanno trovato dei metodi per coinvolgere tutti i giovani e si sono create situazioni di incontro e amicizia sia tra i giovani partecipanti che tra i giovani e gli organizzatori.
La presenza dei rifugiati all’interno di un laboratorio pratico di cinema è fonte di «una dinamica emotiva forte – commenta Paliaga –: un conto è sentire le loro storie al telegiornale, un altro sentirle raccontare in una relazione prossima».
Mese dopo mese si è riusciti a fare gruppo e a mettersi tutti in gioco.
Gli obiettivi del laboratorio, in fondo, sono proprio quelli di insegnare a trovare un proprio sguardo e di mettere in relazione le persone creando una rete di contatti e conoscenze, mentre la partecipazione di persone con diverse esperienze non fa che arricchire i contenuti del laboratorio stesso.
Collegamenti
Per il cortometraggio Io mi chiamo Asad, presentato a “Corto Dorico 2015”, clicca qui.
Per altre informazioni sul laboratorio Cinemaèreale e i suoi curatori, clicca qui.
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