Tutte le persone che presentano una domanda di asilo in Unione Europea sono sottoposte al cosiddetto rilevamento dattiloscopico che altro non è che il rilievo ed esame delle impronte digitali a scopo giudiziario. Questo rilievo è uno dei tanti tasselli del sistema Dublino basato sul Regolamento n. 343/2003 (detto Dublino II) volto a determinare lo Stato membro competente della valutazione della domanda di asilo.
L’UE ha costruito la logica del sistema Dublino su una semplificazione e un principio.
La semplificazione è quella dicotomica dei push-pull factors secondo cui le migrazioni umane avvengono a causa di fattori di spinta e di attrazione. I push factors rappresentano l’ambito della costrizione e definiscono la categoria dei migranti forzati, i pull factors rappresentano invece l’ambito della volontarietà e definiscono la categoria dei migranti economici. A rigor di logica quindi gli unici che possono aspirare a una forma di protezione internazionale sono i migranti forzati, spinti via (push away) dai Paesi di origine da motivazioni politiche, razziali, religiose, ecc.
Il principio è invece quello di armonizzazione europea che da un punto di vista giuridico equipara a un medesimo livello tutti i Paesi membri che hanno recepito le tre direttive sull’asilo politico.
Sulla base di questi assunti non dovrebbe importare dove si chiede asilo perché in una situazione di fuga un Paese equivale a ogni altro e perché in UE dovrebbe essere assicurato un livello paritario di accoglienza, tutela, qualifiche, procedure.
Ma arriviamo ai numeri del sistema Dublino, da un’analisi di questi si deduce che le due considerazioni di partenza – push factors e armonizzazione europea – non hanno un effettivo riscontro nella realtà.
Innanzitutto il numero prevalente di domande di asilo si riscontra in Paesi definibili ‘attrattivi” e non nei Paesi a ridosso delle aree di crisi. Ad esempio nel 2010 Francia, Germania e Svezia hanno registrato le maggiori richieste di asilo ricoprendo a livello mondiale il secondo, terzo e quarto posto mentre Italia e Grecia si sono posizionate dodicesime e quattordicesime. Nella logica di abbandono del Paese di origine e di una nuova vita i richiedenti non guardano solo alla salvezza fisica con il raggiungimento di un luogo qualsiasi, ma cercano di raggiungere un Paese che riconosca il diritto e l’assistenza.
Il tasso di riconoscimento di una qualche protezione internazionale varia notevolmente fra i diversi Paesi europei, confutando il principio di armonizzazione europea che dovrebbe portare un range meno evidente di scarto. Per citarne alcuni la Grecia (l’esempio più estremo) riconosce una qualche forma di potezione internazionale solo al 3% dei richiedenti, l’Italia al 40%, il Belgio al 22%, la Spagna al 13% e l’Olanda al 44%.
Il sistema Dublino ha quindi dei limiti intrinsechi sottolineati dai suoi stessi numeri. Guardando il caso dell’Italia per quanto riguarda i cosiddetti ‘Dubliners’ vediamo che nel 2009 le richieste di rimpatrio dell’Italia verso i Paesi membri sono state 1.377 (di cui effettuate 47) mentre le richieste dai Paesi membri verso l’Italia sono state 10.600 (di cui effettuate 2.688). Un dato utile come cartina di tornasole del sistema di asilo italiano è che i ‘Dubliners’ atterrati a Fiumicino da tutta Europa erano per stragrande maggioranza già titolari di protezione e non richiedenti asilo. In altre parole: l’Italia concede di fatto un permesso di soggiorno (al 40% dei richiedenti) ma dopo il suo ottenimento è comunque meglio essere clandestini in altri paesi europei che regolare nel nostro paese senza prospettive di vita.
I trasferimenti effettivi sono solo una delle voci di spesa e rientrano nei costi enormi del sistema Dublino insieme alla rete di controllo, di contenimento e al database Eurodac. Per ogni Paese membro questo sistema è fondamentale; insieme alla politica dei dinieghi è infatti l’unico strumento legittimo per assumersi la responsabilità sociale del minore numero possibile di beneficiari di protezione internazionale.
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