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La banalità del razzismo e la vicenda di Ali: una storia dalle Isole

L’esperienza di un giovane somalo che, costretto a fuggire dal suo paese, ha trovato sulle Isole greche protezione internazionale e, ben presto, un lavoro ben pagato presso un ufficio dell’UE. Un caso “ideale” di rapida integrazione. Ma anche lui ha incontrato una barriera forse ancora più insidiosa e umiliante di quelle economiche, burocratiche e linguistiche: un viscido rifiuto da parte della società alla quale è approdato.

(Foto Refugee Info).

 

di Pietro Derossi, da Lesbo (segue dalla corrispondenza del 30 luglio)

Un caso ideale, da “manuale dell’integrazione veloce” in un paese straniero. Ali Hassan è un giovane di 31 anni nato e cresciuto a Mogadiscio, la capitale della Somalia. Nel proprio paese, sin dal 2010, Ali era un insegnante di biologia alle scuole medie. Nel 2014, dopo 23 anni dallo scoppio della guerra civile, il Governo ufficiale tenta di ripristinare l’esame nazionale per il diploma di scuola media. Ad Ali viene chiesto di far parte della commissione d’esame e lui accetta, contento di dare il proprio contributo al processo di unificazione e avanzamento culturale del proprio paese. Lavora nelle commissioni nei mesi di luglio 2014, 2015, 2016.

A inizio 2017, Ali riceve una chiamata sul proprio telefono cellulare. Il numero è anonimo, la voce si identifica come Al-Shabaab e, senza giri di parole, gli comunica che se prenderà parte alla correzione dei prossimi esami la sua vita finirà. Chi gli parla sa bene che Ali ha già prestato servizio nelle commissioni esaminatrici negli anni precedenti. La telefonata si conclude in meno di un minuto.

La Somalia è ad oggi militarmente controllata per quasi metà del territorio nazionale dal gruppo terrorista estremista islamico che ha contatto Ali. Questa organizzazione “parastatale” non crede nel sistema didattico del Governo di Mogadiscio, autorità che disconosce rivendicando il controllo dello Stato secondo la propria interpretazione dell’Islam, per la quale, ad esempio, le donne non dovrebbero andare a scuola.

Ali cambia numero di cellulare e prende ugualmente parte alla correzione degli esami nell’estate del 2017: per mantenere la sua famiglia non può permettersi di perdere il lavoro.

Negli ultimi mesi del 2017 riceve altre due chiamate sul suo nuovo numero, in cui gli viene preannunciata la morte; e infine, nel maggio del 2018, scampa miracolosamente a un attentato mentre torna a casa dopo una serata con amici.

È così costretto a lasciare il lavoro e l’abitazione familiare per andare a vivere da amici. Chiede “protezione” al ministero dell’Istruzione, che può solo offrirgli una posizione non retribuita presso i propri uffici. Nell’agosto del 2018 lascia la Somalia con un visto turistico per la Turchia. Passando per il confine terrestre, riesce a raggiungere la Grecia clandestinamente a settembre.

In Grecia, quando è ancora un richiedente asilo e vive nel campo profughi di Chio, trova un lavoro non regolarizzato per una ONG che offre assistenza legale ai migranti. Ali, oltre alla sua lingua madre, conosce l’inglese, che in Somalia studiava di sua iniziativa in corsi privati. Può dunque lavorare come interprete, consentendo agli avvocati di comunicare con i richiedenti asilo somali che chiedono aiuto all’associazione. È in questo contesto, lavorando a stretto contatto, che ci conosciamo.

Un team dell’EASO in un campo greco per rifugiati (foto EASO).

Ali riceve notifica della decisione che gli concede protezione internazionale il 20 novembre 2019. Il primo gennaio 2020 sottoscrive un contratto di lavoro come interprete per l’EASO (Ufficio Europeo per il Supporto all’Asilo) e inizia a lavorare a Coo, un’isola del Dodecaneso. I cittadini somali che conoscono bene l’inglese sono preziosi e molto richiesti; e il primo stipendio di Ali in Europa è di 3.440 euro al mese: un inserimento lavorativo a tempo di record e a dir poco invidiabile per qualsiasi giovane laureato in Italia come in Grecia.

Tramite un contratto di lavoro e varie peripezie burocratiche, Ali è riuscito a procurarsi tutta la documentazione necessaria per aprire un conto bancario, dove l’agenzia che lo ha assunto gli verserebbe lo stipendio.

Si reca dunque presso la filiale di Alpha Bank di Coo nei primi giorni di gennaio 2020, esibisce il proprio permesso di soggiorno, il contratto di lavoro, il proprio numero di cellullare, il numero di registrazione fiscale (AFM) e una dichiarazione del titolare dell’hotel in cui pernotta, attestante la sua residenza presso la struttura alberghiera, con ricevute di pagamento allegate. Niente da fare: l’agente di banca gli comunica che l’attestazione dell’hotel non è sufficiente, è necessario provare la locazione di un appartamento.

Il protagonista di questa storia non si lascia scoraggiare e si reca presso la sede di Prias Bank presente sull’isola. Qui il rappresentante dell’istituto gli riferisce che il suo permesso di soggiorno come beneficiario di protezione internazionale non è “adatto”, perché è invece indispensabile il permesso di soggiorno assegnato a chi è ancora richiedente asilo, cioè nel mezzo della procedura volta a stabilire la fondatezza della domanda di protezione. Sembra un paradosso.

Ali si reca dunque presso i locali di EuroBank. Qui un membro del personale gli spiega che la banca non apre conti correnti intestati a privati ma solo a nome di società. Ma chi scrive, cittadino italiano, ha un conto EuroBank aperto a Chio senza rappresentare società alcuna.

Senza darsi per vinto, Ali si reca presso la National Bank, l’ultima alternativa disponibile. Ali tira fuori dallo zaino tutta la documentazione più volte esibita invano e spiega che ha assoluto bisogno di un conto corrente per ricevere lo stipendio. Riesce a farsi aprire un conto, ma in pochi giorni si accorge che lo stipendio non arriva. Tornato in banca, la stessa impiegata incontrata pochi giorni prima gli spiega che, purtroppo, il suo conto corrente non può ricevere bonifici dall’estero, e poiché il suo stipendio è pagato da un’agenzia interinale avente sede in Italia lui non può ricevere lo stipendio.

Una crepa inizia a insidiare la diga che contiene la frustrazione del nostro amico. Lui rinfaccia all’impiegata, senza convenevoli, di averle già spiegato che il suo datore di lavoro formale ha sede in Italia durante il loro incontro precedente, e chiede che gli si apra immediatamente un conto senza limitazioni di funzionalità geografiche. L’agente di banca si dice molto dispiaciuta ma impossibilitata ad esaudire la sua richiesta.

La diga collassa: Ali inizia a urlare dentro agli uffici della banca, chiamando la persona davanti a lui con il suo nome, razzista. «Tu non mi apri un conto per il colore della mia pelle». Siamo nel 2020 e siamo in Grecia, ma questa è una storia vera. Ali non si placa e continua a inveire chiedendo che gli si apra un conto, finché altri componenti del personale intervengono per placarlo. Alla fine di quella giornata, il 21 febbraio 2020, dopo quasi due mesi di tentativi, Ali uscirà dalla banca con un conto corrente pienamente funzionante.

Una veduta dell’isola di Coo (foto Wikipedia/Paginazero).

Ali vive a Coo dal gennaio 2020 e dopo sette mesi dorme ancora in albergo. Ogni volta che contatta il numero esposto in un annuncio per un appartamento, la voce che al telefono lo sente parlare in inglese lo interroga sulla sua nazionalità. Solo in un secondo momento gli viene detto che l’appartamento è già affittato.

Le vicissitudini di questo giovane somalo rappresentano un raro caso di immediato raggiungimento di indipendenza economica, generalmente possibile per quei pochissimi profughi che conoscono bene l’inglese. Ma le stesse vicende testimoniano come, anche superati gli ostacoli economici, burocratici  e linguistici che separano il migrante dalla sua piena integrazione, permane una barriera forse ancora più insidiosa e umiliante delle altre: un viscido rifiuto da parte della società alla quale il rifugiato approda.

«Perché non te ne vai in Germania?», gli ha detto sprezzante il poliziotto da cui Ali si è recato qualche giorno fa per ottenere un passaporto valido per viaggiare in Europa. E Ali in Germania o altrove, via da questa isola a lui ostile, ci vorrebbe andare, ma sa che le sue impronte digitali sono state prese in Grecia, e secondo la normativa europea dettata dal regolamento di Dublino lui può lavorare solo sul territorio ellenico.

A giustificazione del recente giro di vite nell’assistenza concessa al migrante dal momento in cui questi ottenga lo status di protezione internazionale, il ministro dell’Immigrazione e dell’Asilo greco ha affermato in aprile che queste persone, «da questo momento, sono tenute a badare a se stesse, come fa ogni cittadino greco». Sarebbe bello che queste persone fossero anche considerate degne di rispetto quanto ogni cittadino greco.

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Osservatorio Isole è uno spazio di testimonianza in prima persona e di analisi sullo stato di malattia del diritto alla protezione internazionale in Europa, e prende le mosse dall’ultima offensiva militare del regime siriano nella provincia di Idlib e dalla conseguente decisione del presidente turco Erdogan di aprire ai profughi i propri confini verso l’Unione europea, alla fine di febbraio 2020.

Gli articoli e le notizie principali sono a cura di Pietro Derossi (pietro_derossi91@outlook.com), laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino e abilitato alla professione forense. Derossi vive in Grecia dal giugno 2019, dove ha lavorato con diverse ONG impegnate sul campo nell’assistenza legale dei richiedenti asilo nonché per l’Ufficio Europeo di Sostegno per l’Asilo (EASO). Ha visitato i campi profughi di Samo, Chio e Lesbo, e attualmente risiede a Lesbo. Intende rivolgersi «soprattutto a chi, pur non lavorando nel settore, è cittadino accorto e impegnato a informarsi: costui contribuisce a mantenere intatto il sogno della democrazia».

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