Una storia di guerra e di esilio raccontata dal protagonista, un giovane rifugiato del Sierra Leone. Ma anche una storia molto “italiana”: lo sbarco, il Cara, il pezzo di carta della protezione umanitaria, la liberazione dalla strada solo grazie a un incontro fortunato. E adesso, il lavoro faticoso «di ricostruire per l’ennesima volta la mia vita». Pubblichiamo una testimonianza consegnata alla nostra redazione.
* di John Papani Kamara
Sono nato in Sierra Leone 24 anni fa. La mia vita da bambino è stata felice fino a quando un giorno, tornando da scuola con mio fratello, ho visto la mia casa bruciare. Dentro c’era la mia famiglia. Avevo nove anni.
Noi siamo stati catturati dal Ruf (il Revolutionary United Front, nella guerra civile 1991-2001, ndr) e addestrati a compiere atti terribili sotto l’effetto di droghe.
Dopo quattro anni io e mio fratello siamo riusciti a scappare e abbiamo raggiunto la Costa d’Avorio, dove siamo rimasti due anni, in un campo dell’Unhcr.
Poi, una nuova fuga da una nuova guerra. Su un camion carico di sigarette di contrabbando, abbiamo raggiunto la Libia passando per il Niger. Qui abbiamo vissuto sei anni, abbiamo imparato a fare i piastrellisti, c’era lavoro e stavamo bene. Ma la guerra è arrivata anche lì.
Noi dell’Africa centrale eravamo ricercati dalle truppe di Gheddafi perché sapevamo già combattere, e così mio fratello è stato preso. Non l’ho più rivisto. Io invece mi sono ritrovato in fuga verso l’Italia senza volerlo. Non ho neanche pagato: era il regime di Gheddafi che ci faceva imbarcare (per ritorsione contro l’appoggio che l’Europa dava ai ribelli, ndr).
E così Lampedusa, e un anno al Cara di Mineo, dove la mia posizione continuava ad essere poco chiara. A Roma mi hanno dato un permesso per motivi umanitari: per loro non c’era motivo di riconoscermi rifugiato politico. A Roma ho vissuto in strada, alla Caritas e in una casa occupata. Passavo le giornate in giro per la città senza un lavoro.
Poi la svolta. Una psicologa romana, che mi ha aiutato molto e che continua a farlo, ha parlato di me a un giornalista della Stampa che mi ha intervistato, e così in molti hanno conosciuto la mia storia.
Da tutta Italia ho avuto offerte di accoglienza e ora vivo in un paese dell’astigiano presso la casa di un sacerdote. Mi è stato riconosciuto lo status di rifugiato, frequento un corso di giardinaggio e uno di italiano. Spesso sento il peso della solitudine, non ho una famiglia, gli amici sono lontani, mi manca la libertà che ho sempre avuto e le mie notti sono piene di incubi.
Sto cercando pian piano di ricostruire, per l’ennesima volta, la mia vita.
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