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Nel Canale di Sicilia: “Qui è meglio se ognuno prega il suo Dio”

Ieri, nel 2011, la fuga dalla Libia nello sfacelo della guerra civile (e dell’intervento militare euro-americano): quasi storia, ormai. Oggi un permesso di soggiorno per motivi umanitari, un lavoro, una casa in affitto, una rete di relazioni. In mezzo, il soccorso in mare a 500 profughi e migranti su un barcone che girava a vuoto nel Canale di Sicilia. Quella che segue è la testimonianza di A. T., 25 ANNI, IVORIANO, residente a Torino.

lestorie_flux-sd02“È andata bene, nel senso che non è morto nessuno. Però sulla barca a un certo punto ci siamo detti che era meglio pregare ognuno il suo Dio. Seguo ancora oggi le notizie, nei mesi scorsi ho sentito che da una barca sono stati gettati in mare dei cristiani. Mi pare strano, non posso dire, forse è cambiato qualcosa. Noi però abbiamo pregato ognuno il nostro Dio, davvero. Sulla barca eravamo circa 500, non sapevamo bene dove andavamo”.

Alla partenza funzionava così: prendevano qualcuno che non ne sapeva molto più di noi, ‘guardate, la rotta è quella, si fa così’, e via. Un’incertezza totale. Qualcuno diceva che stavamo andando in Brasile, o in Francia. Poco da mangiare, e io vomitavo sempre, anche l’acqua. E poi quel mare tutto intorno: un grande vuoto, fino a dove il cielo e l’acqua si toccano. Anche se un giorno abbiamo trovato dei pescatori, forse tunisini, che ci hanno indicato la direzione: ‘Dovete andare di là'”.

“Alla fine dopo quattro giorni di viaggio ci ha trovati una nave della Marina italiana. Bisognava salire su una scialuppa, dicevano ‘prima le donne e i bambini’, però sono stati momenti difficili. Nella confusione la barca ondeggiava, quelli che stavano di sotto avevano i piedi nell’acqua. Ci hanno portati a Lampedusa, e lì al centro d’accoglienza in pullman. Allora dal centro non si usciva. Mi hanno detto che l’isola è bella ma io non ho visto niente… Dopo tre, quattro giorni ci hanno traghettato sul continente. Sono passato per diverse città fino a Settimo, vicino a Torino, nel centro di accoglienza della Croce Rossa”.

Facce da mercenari

Immagine_taglio_2“Io sono di Daloa, in Costa d’Avorio, la città di mio padre. Mia madre invece è maliana. Ho lasciato la Costa D’Avorio da ragazzo per raggiungerla in Mali (non la vedo da anni, anche se ci telefoniamo sempre). Poi passando per l’Algeria sono andato a cercare lavoro in Libia: Ghadames, Bengasi, Sirte, Tripoli. Là si costruiva, c’era da fare, anche se al 90 per cento in nero e nei lavori che i libici non facevano volentieri, come l’aiuto muratore o l’inserviente negli allevamenti di polli”.

“Nel 2011 è scoppiata la guerra ed è cambiato tutto. Io e altri in una zona controllata dai ribelli siamo stati perfino arrestati, sospettavano di noi perché molti neri facevano i mercenari per Gheddafi. Poi ci hanno liberato, ma io avevo perso i risparmi di due anni e mezzo. Non potevo tornare in Africa in quelle condizioni. E ho deciso di attraversare. Siamo partiti da Tripoli, nel territorio ancora di Gheddafi, vicino a un campo militare, nel maggio 2011. Praticamente erano gli uomini di Gheddafi a metterti sulle barche, per vendetta contro l’intervento degli occidentali che aiutavano i ribelli. Io per il viaggio ho pagato 200 dinari, 130 euro circa, ma so di altri che non hanno dovuto pagare”.

Se la vita è fuori

“E oggi, che cosa faccio qui a Torino oggi, mi chiedi? Ti ricordi che l’anno scorso facevo un tirocinio in una gastronomia artigianale? Ecco, proprio lì a novembre mi hanno fatto un contratto full time da apprendista per tre anni. Ne avevo già trovato uno part time in una pizzeria, grazie a Non solo asilo (un progetto della Cooperativa Orso e della Pastorale Migranti di Torino con il sostegno della Compagnia di San Paolo, ndr), ma dopo questa offerta ho dovuto lasciarlo. Adesso ho un lavoro a tempo pieno, una casa in affitto, ho fatto formazione e ho preso anche la patente come era in programma con Non solo asilo. Così era giusto lasciare il mio posto a chi è appena arrivato e ne ha bisogno. Ho ancora la protezione umanitaria, ma dovrei passare al permesso per lavoro”.

“Intanto avevo anche lasciato il centro di Settimo: avevo conosciuto una signora che ci insegnava l’italiano di base, e dopo un po’ lei mi ha ospitato a casa sua con suo figlio. Abitano qui vicino, ci vediamo ancora di continuo. Sono stato fortunato. Mi dicono ‘bravo’, ma io penso che ho solo trovato le persone giuste al momento giusto. Ho amici che dopo anni non sono riusciti a sistemarsi e non hanno ancora imparato l’italiano. In pizzeria invece eri obbligato a imparare…”.

“Al centro di Settimo ti accorgevi che non era vera vita. Mangiavamo pasta, giocavamo a pallone, ma io ingrassavo e mi annoiavo. La vita vera era fuori, bisognava uscire. Prendevo un mese di permesso per andare a raccogliere frutta a Rosarno, o a Saluzzo. Ho anche rubato il treno per arrivare perché non avevo soldi. A Saluzzo era meglio, dopo un po’ in nero ti mettevano in regola per qualche giorno, sui cinque euro all’ora. A Rosarno era più dura, per ogni cassetta di frutta ti davano un euro, e fare una decina di cassette in un giorno per me era il massimo. Al ritorno però almeno avevo i soldi per pagare il biglietto”.

“Adesso chissà che cosa porterà il futuro. Ma penso che per quelli come me la cosa più bella, potendo, sarebbe tornare in Africa e investire laggiù, non solo i risparmi ma anche tutte le esperienze che abbiamo vissuto. Là ce n’è più bisogno che qui”.

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by Mauro Biani – Repubblica
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