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Abdullahi Ahmed: un futuro da italiano

di Celeste Ansaldi                   

Ad Abdullahi, Abdul per tutti quelli che lo conoscono, piace raccontarsi e parlare della sua nuova vita in Italia. 24 anni, una storia piena di colpi di scena e all’insegna dell’impegno sociale e politico. Rifugiato e mediatore interculturale. Grande tifoso del Toro, Abdul ha l’abbonamento allo stadio e non si perde una partita. Quando parla della sua fede calcistica gli si illuminano gli occhi. Inoltre, ha tanta sete di cultura, e con il suo abbonamento ai musei torinesi conosce e impara continuamente cose nuove. Nato e cresciuto in Somalia ma, come dice lui, “settimese doc”, visto che a Settimo Torinese è rinato.

Quando sei arrivato in Italia e quale è stato il tuo percorso?

Sono arrivato in Italia il 23 giugno 2008, dopo 7 mesi di viaggio. Lasciai il mio Paese alla fine di novembre del 2007. Ho attraversato diversi Stati; prima l’Etiopia, poi il Sudan dove ho viaggiato 7 giorni nel deserto, poi sono arrivato in Libia, dove ho lavorato per qualche mese. Dalla Libia, dopo 24 ore di traversata, sono arrivato a Lampedusa. Qui ho trascorso 4 giorni, dopo ci hanno portato direttamente a Settimo Torinese, presso il Centro Fenoglio, gestito dalla Croce Rossa di Settimo. Eravamo circa 80 persone, l’accoglienza è stata positiva da parte dei gestori del centro, dell’amministrazione comunale e dei cittadini settimesi. Dopo 3 mesi ho ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato. Il Comune e la Croce Rossa hanno creato il progetto Life, al di fuori dei progetti SPRAR previsti a livello nazionale, che durava un anno e prevedeva l’insegnamento della lingua italiana, corsi di formazione professionale e tirocini. Per me è stato utile fare esperienze lavorative e imparare l’italiano.

Tu sei mediatore interculturale. Perché hai fatto questa scelta e quale è stata la tua formazione?

Alla conclusione del nostro progetto sono arrivati a Settimo circa 150 rifugiati dalla ex clinica San Paolo. La maggioranza era somala. Da quel momento mi sono reso conto che c’era la necessità di aiutare i miei connazionali e mi sono messo a disposizione per aiutare le associazioni e i rifugiati che avevano bisogno. Dopo un periodo di volontariato ho deciso di fare il corso da mediatore interculturale alla “Casa di Carità Arti e Mestieri”. Sono diventato mediatore non tanto per scelta, ma per necessità. Io so di cosa ha bisogno il rifugiato perché l’ho vissuto sulla mia pelle, e il corso mi ha insegnato come muovermi nella rete di aiuti e associazioni sul territorio, ho imparato le leggi italiane sull’immigrazione e la cultura italiana; metto le mie conoscenze al servizio di chi è arrivato dopo di me per spiegare loro come funziona questo nuovo mondo per noi. Ho raccolto molte soddisfazioni personali: a livello umano mi ha dato tanto. Mediatore interculturale non è solo fare l’interprete, come spesso molti dicono e sostengono.

Hai partecipato ad incontri nelle scuole, per informare e raccontare ai ragazzi la tua storia. Cosa ti ha colpito maggiormente di questa tua esperienza?

Mi ha arricchito molto confrontarmi con ragazzi delle scuole medie e superiori di Torino e non solo. I ragazzi non hanno conoscenza della propria storia passata, faccio io domande provocatorie. Chiedo sempre se secondo loro sono tanti i rifugiati in Italia rispetto a quanti ve ne sono negli altri Paesi e loro rispondono che sono tanti, ma nessuno sa dire quanti sono. Quando poi scoprono che in Francia e in Germania ce ne sono molti di più si stupiscono sempre. Parliamo del Regolamento di Dublino II e dell’articolo 10 della Costituzione Italiana. Un’altra cosa che mi ha colpito è la loro voglia di andarsene via. E’ una cosa che io contesto duramente. In Italia non tutto è da buttare; hanno la scuola e la sanità pubblica e anche la pace che per voi è una cosa banale, ma per noi conta molto. In Somalia non ci sono questi servizi e non c’è la pace dal 1991. Avere già la voglia di andarsene a 15 o 16 anni non è bello, io che sono stato costretto a lasciare il mio Paese so che cosa vuol dire lasciare tutto. Anche se sono dell’idea che andare alla ricerca di una vita migliore sia un diritto di tutti, credo che sia necessario voler cambiare, non lasciare. Se scappano i giovani chi lo cambia il Paese?

Hai anche avuto recentemente un incontro con Cécile Kyenge, ministro dell’Integrazione. Come è avvenuto? E’ stato positivo?

E’ avvenuto grazie all’onorevole Francesca Bonomo, che da sempre ha a cuore le sorti dei rifugiati politici. E’ lei che ha voluto organizzare questo incontro, dando a noi in prima persona la possibilità di confrontarci con il governo. Era presente anche il sindaco di Torino, Piero Fassino. L’incontro è stato positivo, ringrazio di cuore Francesca Bonomo. Abbiamo parlato dei nostri problemi, della gestione dell’Emergenza Nord Africa e la ministra Kyenge ha detto che si farà portavoce al governo di questa situazione. Ha detto anche che ci sarà un aumento dei posti SPRAR che da 3000 diventeranno 8000una notizia poi confermata anche dal premier Letta. C’è molto da fare. E’ necessario fare una legge organica sull’asilo e l’onorevole Bonomo ha dato la sua disponibilità a incontrarci di nuovo per discutere insieme di questa proposta di legge.

Come descriveresti la tua esperienza in Italia?

La mia esperienza è stata positiva. Se mi chiedessi un bilancio di questi 5 anni io la racconterei così: ho imparato l’italiano, ho trovato una casa e un lavoro, partecipo agli eventi sociali e per questo ho raggiunto un’autonomia personale. Purtroppo molti non hanno avuto questa possibilità, non perché non avessero la volontà, ma perché il disagio è frutto di un sistema basato sull’emergenza. L’unica cosa di cui mi rammarico è che 2 anni fa avevo deciso di riprendere l’università perché in Somalia avevo frequentato il primo anno di giurisprudenza. Purtroppo, però, non mi hanno dato la borsa di studio e il posto letto così ho dovuto fare altre scelte. Mi dispiace molto.

Quali sono i tuoi obiettivi futuri?

L’obiettivo prossimo è chiedere la cittadinanza italiana, anche se è difficile. Io mi sono sempre dato dei traguardi da raggiungere nella vita e anche se, a volte, non si ha la certezza di ottenere ciò che si vuole, ho imparato a non mollare mai. Ho una mia autonomia e partecipo alla vita sociale del territorio, per cui mi sento parte di questa società. Per questo motivo chiederò la cittadinanza. Per un rifugiato politico, dal momento che non può tornare nel proprio Paese, è necessario avere 5 anni di residenza in Italia e aver lavorato gli ultimi 3 anni, quindi ho i requisiti. Questo, ora, è il mio grande obiettivo.

 

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